La vittoria contro l’Isis
e i lupi solitari

Sul fronte del terrorismo islamista viviamo un momento tra i più schizofrenici. Da un lato, celebriamo la sconfitta militare dell’Isis e delle formazioni armate sue alleate. Sia Haydar al-‘Abadi, premier iracheno, sia Vladimir Putin, signore del Cremlino, nelle scorse settimane hanno gridato «missione compiuta» per celebrare la disfatta del Califfato. E prima ancora, la coalizione dei curdi e dell’Esercito libero siriano, appoggiata dagli americani, aveva celebrato la caduta di Raqqa, pseudo capitale delle milizie, come un passo decisivo verso la vittoria. Dall’altro, il numero dei cosiddetti «lupi solitari» pronti a colpire nelle città dell’Occidente non tende a ridursi.

E forse, al contrario, aumenta. L’ultimo della serie ha tentato una strage a Melbourne, in Australia, secondo una modalità ormai tristemente nota: un veicolo, in questo caso un Suv, lanciato alla cieca e a tutta velocità contro la folla. Le notizie delle prime ore parlano di molti feriti e nessun morto, per fortuna. Forse è terrorismo, forse no. In ogni caso, l’aspirante stragista ha tutte le caratteristiche che abbiamo imparato a conoscere: origine afghana, problemi di droga, turbe mentali. Da manuale, per un «lupo solitario».

Tocchiamo insomma con mano una realtà difficile da controllare. L’Isis è un fenomeno prodotto dalle esigenze specifiche del campo di battaglia: il suo compito, in Medio Oriente, era inserire una zeppa sunnita-wahabita nella Mezzaluna Fertile (Iran, Iraq, Siria, Libano) dominata dagli sciiti e poi difenderla. Per questo serviva un esercito, una forza armata organizzata e tenace com’è appunto stata l’armata del Califfato. L’Isis, quello vero, è una specie di format. E infatti lo vediamo risorgere, con altri nomi e altre forme ma identico nella sostanza, ovunque si riproducano le esigenze strategiche dei finanziatori del terrorismo: oggi in Libia dove l’abbattimento del regime di Gheddafi ha lasciato molto spazio o in Mali, dove ha stretto un’alleanza con i tuareg. Oppure nel Sinai egiziano, nella Nigeria di Boko Haram o nella Somalia degli shabaab. In tutti i casi l’obiettivo, come appunto in Siria e in Iraq, è sottrarre territori al controllo degli Stati per poi insediarvi uno pseudo-Stato basato sulla legge islamica.

È una sfida militare che l’Occidente può vincere con mezzi militari. E infatti la vince, quando le complicità politiche e le connivenze non lo frenano. Il problema è l’esempio, lo stimolo che le guerre dell’Isis hanno trasmesso e diffuso in ogni parte del mondo alle cellule di fanatismo che hanno seguito le sue battaglie e ammirato il suo «sacrificio». Intervenire su queste è molto più difficile, come possiamo notare ogni giorno, tra uno spavento e un allarme, da un attentato a una retata. Il fatto che i reclutatori scelgano i loro pupilli in un vivaio fatto soprattutto di asociali, squilibrati, tossicomani e piccoli criminali in cerca di riscatto, complica ancor più le cose. Dovremmo rivolgere sguardi più seri a quelle periferie urbane e umane di cui spesso parla anche Papa Francesco, indagare le loro miserie, studiare quegli agglomerati in cui si ammassano tanti nuovi arrivati. È una delle tante facce della globalizzazione. Facce per noi quasi sempre gradevoli, anche se ci piacerebbe che gli altri Paesi mandassero qui solo le menti migliori, e non anche quelle malate. Ma è proprio questo il punto. Il figlio di immigrati afghani che lancia un’auto contro gente inerme convinto di far così rinascere il vero islam non è più pazzo di uno dei giovani che da noi, negli anni Settanta, ammazzavano un sindacalista per rendere il mondo più giusto. Erano il male dell’epoca, così come i «lupi solitari» da ospedale psichiatrico sono il male della nostra. Dovremmo occuparci della luna, ovvero di un pianeta che rimescola le proprie genti e si avvoltola su se stesso senza apparente direzione, e non del dito che la indica. Anche se questo vuole uccidere a un concerto pop o in un mercatino di Natale.

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