L’allarme del Papa
sulla guerra nucleare

«Sì, ho paura di una guerra nucleare, siamo al limite». Le parole che Papa Francesco consegna ai giornalisti, accompagnate dalla fotografia di un bambino che porta sulle spalle il fratellino morto, scattata a Nagasaki nel 1945, hanno fatto in un lampo il giro del mondo, come sempre succede (e succede spesso) quando il Pontefice intercetta con puntualità il sentimento popolare. Negli ultimi anni, infatti, abbiamo assistito con crescente costernazione allo sgretolarsi di un tabù, quello che voleva le armi atomiche onnipresenti e onnipotenti (molti Stati ne possedevano quantità assurde) ma in buona sostanza inutilizzabili, perché la risposta al primo colpo avrebbe quasi certamente portato con sé la distruzione totale.

La deterrenza atomica dei lunghi anni della Guerra Fredda era esattamente questo. Con la fine dell’Unione Sovietica e l’avvento del monopolio strategico americano, abbiamo potuto pensare che il disarmo atomico potesse diventare realtà. È successo l’esatto contrario. Intanto, gli Stati che hanno smantellato l’arsenale nucleare sono pochi (Ucraina, Kazakhstan, Bielorussia e Sudafrica), mentre numerosi sono quelli che ancora detengono una quantità di bombe tale da garantire l’apocalisse: Usa (1.740 testate), Russia (1.790), Francia (290), Regno Unito (120), Cina e Israele (accoppiate perché nessuno sa con esattezza di quante testate dispongano), più i nuovi venuti India, Pakistan e Corea del Nord.

Ma soprattutto, l’arma atomica è tornata a essere uno strumento non più innominabile nella dialettica politica internazionale. Uno dei punti di svolta, in questo senso, è stata l’invasione dell’Iraq nel 2003. Una delle ragioni addotte, mentendo, da George W. Bush e Tony Blair per quella sciagurata riedizione del peggiore imperialismo era che Saddam Hussein disponeva di armi di distruzione di massa e forse anche di armi atomiche. Sappiamo che non era così ma quello stolto comportamento ha ottenuto proprio l’effetto che si proponeva di annullare. Da quel giorno, infatti, gli Stati che hanno o credono di avere qualche ragione per temere un attacco hanno cominciato a volere la bomba, consci che nessuna aggressione potrebbe arrivare con quell’arma sotto mano. L’Iran, la Corea del Nord, in fondo lo stesso Israele isolato in un mondo arabo ostile, hanno riscoperto il modello Guerra Fredda. Con una differenza profonda: le dirigenze di Usa e Urss, ai bei vecchi tempi, controllavano i propri apparati e quelli dei cosiddetti «Paesi satelliti». Oggi chi può davvero dire di controllare, per fare un solo esempio, la Corea del Nord e il suo leader Kim Jong-un? Quanta fiducia abbiamo nel sangue freddo dei militari di India e Pakistan, che si sono combattuti in almeno cinque guerre tra grandi e piccole, e nel fatto che la mano sul bottone nucleare non venga mai messa da un estremista hindù o musulmano? E a proposito: abbiamo mai sentito, nei decenni della Guerra Fredda, un presidente americano vantarsi di avere un «bottone nucleare» più grosso di quello di qualcun altro?

Noi tutti sappiamo che esistono, per fortuna, strumenti di controllo, agenzie e procedure politiche studiate proprio per ridurre e quasi annullare ogni rischio di tal genere. Lo sappiamo, però non lo sentiamo. Papa Francesco ha espresso la propria preoccupazione pochi giorni dopo che lo Stato americano delle Hawaii era rimasto per 38 minuti nel panico a causa di un falso allarme che annunciava l’arrivo di un missile balistico dalla Corea del Nord. Non c’è alcuna ragione per cui Kim Jong-un dovrebbe radere al suolo le Hawaii, condannando all’estinzione se stesso e il proprio Paese, ma milioni di persone hanno comunque vissuto i 38 minuti più lunghi della loro vita. Perché sentono, come noi tutti, che l’arma nucleare non è più tabù. Cosa che invece dovrebbe tornare a essere.

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