L’armistizio, troppi sordi
alla lezione della storia

Le celebrazioni dell’armistizio che cent’anni fa mise fine alla Prima Guerra Mondiale hanno riflettuto il clima cupo, ambiguo e potremmo dire di smarrimento in cui si trovano oggi l’Europa e l’Occidente. Anche le schermaglie tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, erede di Thomas Woodrow Wilson e del capo di Stato francese Emmanuel Macron, il successore cent’anni dopo di George Clemenceau, non hanno certo giovato a dare il giusto rilievo e la giusta dimensione all’evento. Un acceso dissenso di opinioni sulla necessità espressa da Macron di superare da parte dell’Europa l’appartenenza alla Nato per proteggersi da Stati Uniti, Cina e Russia e la replica sdegnata di Trump, che invitava l’Unione a mettere mano al portafoglio per pagare le sue quote, stanco di finanziare in gran parte l’Alleanza militare atlantica.

Per il resto, a parte le immagini di rito, e la serie di incontri bilaterali di cui hanno approfittato i 70 potenti della terra convenuti sotto l’Arco di Trionfo, l’opinione pubblica mondiale ha assistito alla cosa guardando le immagini ai telegiornali con distratto interesse. Forse il messaggio più bello è arrivato da Angela Merkel, la cancelliera tedesca che si avvia a uscire dalla scena dopo tredici anni. Anche Macron ha lanciato l’allarme contro il nazionalismo, il veleno della storia considerato il «tradimento del patriottismo» (generatore dei due conflitti mondiali) ma la cancelliera ha anche lanciato l’allarme ricordando che «i benefici della cooperazione internazionale, l’equilibrio pacifico degli interessi, addirittura il progetto di pace europeo, la gente li chiama di nuovo in causa».

Le conferenze che chiusero il Primo conflitto, a differenza della gestione del Secondo soprattutto da parte degli Stati Uniti, non sono certo ricordate per il trionfo del bene comune e della saggezza. All’indomani della fine della Grande Guerra, fin dalla Conferenza di pace di Parigi che si aprì da lì a pochi giorni, nel gennaio del 1919, Inghilterra e Francia fecero di tutto per risvegliare la febbre nazionalistica (che allora chiamavano patriottica) portando a quell’instabilità sociale che aprì la strada a un nuovo conflitto mondiale. Perfino l’Italia, potenza vincitrice rappresentata da Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, nonostante Vittorio Veneto e nonostante 750 mila morti versati sull’altare della guerra, venne trattata quasi con disprezzo. D’Annunzio sul «Corriere» aveva parlato di «vittoria mutilata» e ne approfittò per risvegliare gli spiriti revanscisti e nazionalistici che da lì a poco avrebbero incubato il fascismo. Clemenceau e il premier britannico Lloyd George tennero fuori i Paesi vinti, disattesero gli aneliti pacificatori di Wilson e schiacciarono la Germania sottraendole Alsazia e Lorena oltre al vitale bacino carbonifero della Saar. Inoltre ingiunsero a titolo di riparazione l’enorme somma di 269 miliardi di marchi-oro da restituire in 42 anni, convinti che l’impero teutonico non si sarebbe più risollevato. E invece crearono le condizioni per l’ascesa di Hitler e per la Seconda Guerra Mondiale.

I nuovi contrasti furono irrorati dal seme del nazionalismo, generato e nutrito dalla crisi e dai milioni di disoccupati dell’epoca di Weimer. La storia non si ripete mai, e se si ripete si ripete in farsa, si suole dire. Eppure la ricorrenza celebrata dai 70 capi di Governo che hanno ricordato l’armistizio è sembrata troppo superficiale e simile a tanti vertici in cui i potenti della Terra sembravano più impegnati a stabilire i loro affari diplomatici dietro le quinte delle cerimonie, e soprattutto molto, molto distanti dalla loro gente, che non ha partecipato al ricordo e alla memoria della fine di un evento che causò almeno 15 milioni di vittime. Un’occasione persa per trarre lezione dalla storia.

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