L’ascolto della sofferenza
può curare l’anima

Nessuno potrà riportare in vita Alessandra Tosi, trentaquatrenne, madre di due bimbi di 8 e 10 anni, ed Eleonora Bottaro, padovana, appena diciottenne. Le due giovani donne sono morte di cancro avendo rifiutato di sottoporsi alle cure prescritte loro dai medici e, in particolare, alla chemioterapia.

Pare che entrambe (nel caso di Eleonora, con il sostegno decisivo da parte dei genitori) abbiano seguito la ricetta del tedesco Ryke Hamer, il quale sostiene che i tumori siano la conseguenza di conflitti importanti irrisolti o di qualche trauma psichico e che quindi non vadano affrontati con le terapie mediche consuete, ma inseguendo la pacificazione interiore, la rimozione del trauma o la cessazione del conflitto interiore. Il dottor Samorani, che, a Rimini, ha tentato inutilmente di convincere Alessandra Tosi a curarsi, riferisce che la ragazza «si faceva impacchi di ricotta e decotti di ortiche».

Se non si può purtroppo riportare in vita le due ragazze, possiamo però tentare di riflettere sulle ragioni di quel che è avvenuto. Sono due le considerazioni che mi vengono alla mente. La prima riguarda la tragica inevitabilità di vicende come queste. La medicina scientifica è una delle manifestazioni più potenti, forse la più fenomenale in assoluto, della capacità degli uomini moderni di intervenire sul corso della natura, di modificare la durata, la qualità e la forma delle nostre esistenze, in molti casi trasformandole radicalmente. C’è un aspetto quasi sacrale in questa spettacolare dimostrazione di potenza, la premessa di un totale rivolgimento di un ordine fissato da millenni e che ora finalmente diventa possibile mutare.

È comprensibile che il vecchio mondo stregonesco della superstizione, dell’incantesimo, delle pozioni magiche e degli intrugli di lunga vita faccia capolino da qualche bassofondo della nostra civilizzazione e ci torni a dire quello che ci ha ripetuto instancabilmente per millenni: e cioè che la malattia è una punizione per le nostre colpe, che per guarire ci vuole una conversione dell’anima, che il maghetto che ci sta dinanzi merita fiducia e che ci garantirà, lui solo, la vita e la felicità eterne. Qualunque forma assumano, da quella pseudo-psicanalitica a quella dell’erba miracolosa, queste pervicaci resistenze alla modernità, ormai prive persino di una qualsiasi legittimazione religiosa, persisteranno in eterno nel nostro tessuto sociale, eredità miserabile di un passato che non sarà mai del tutto tale, conseguenza della sfiducia verso una scienza medica così prodigiosa per quel che sa fare, ma anche, al fondo, per i tantissimi profani quali noi rimaniamo, cosi arcana, misteriosa, imperscrutabile nella sua potenza: oggetto di costante ammirazione, ma anche appunto di diffidenza e di scetticismo.

La seconda considerazione è di segno molto differente e consiste nel costatare che, per quanti sforzi le istituzioni di cura e la comunità scientifica possano mettere in atto, la malattia resterà sempre la fonte di giganteschi interrogativi di senso: sulla natura del male, sulla sofferenza, sulla morte. Quelle domande non verranno mai meno e noi contemporanei non possiamo immaginare che sia la medicina a fornirci le risposte. Semplicemente perché la medicina non le possiede. Come non le possiede più monopolisticamente, in una società aperta e libera, nessun altra istituzione, nessuna agenzia. Per questo non ci rimane che lo strumento, laicissimo, del dialogo e della conversazione tra eguali, insieme a quello, altrettanto prezioso, dell’ascolto rispettoso, non solo nelle case e negli ospedali, ma anche nei media e in ogni altro luogo, dei nostri simili, ma dovrei dire di noi stessi, quando soffrono, quando soffriamo. Sino all’ultima parola, fino all’ultimo respiro. Anche questo ci rende civili.

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