L’atto tragico ci mette in scacco

Nonostante le sterili polemiche del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, e del ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, il bonus psicologico è legge, e presto, in Lombardia, avremo anche lo psicologo di famiglia.

Due buone notizie, non c’è dubbio, di certo due provvedimenti ancora insufficienti per soddisfare le necessità dei pazienti e delle loro famiglie, ma almeno si prende finalmente atto del «male di vivere» che sempre più frequentemente ci colpisce, mettendo a nudo le nostre più intime fragilità, soprattutto quelle che non immaginavamo nemmeno di avere. La guerra sull’uscio di casa ormai da oltre cento giorni, i lunghi mesi del lockdown e le paure generate dal Covid hanno silenziosamente lavorato nell’ombra, indebolendo giorno dopo giorno il nostro equilibrio psicofisico. Molti sono riusciti a sviluppare la resilienza di cui tanto si parla, quella capacità di reagire efficacemente ai traumi e alle difficoltà in cui si incappa. Ma molti altri, e sono sempre di più, sprofondano invece in un cupo senso di malessere da cui uscire sembra impossibile. Non c’è una fascia d’età più colpita di altre, c’è una perfida e subdola linea trasversale che accomuna giovani, adulti e anziani, persino ragazzini tra i 12 e i 13 anni, l’età in cui la gioia di vivere e del vivere dovrebbe essere incontenibile. La situazione non solo è molto delicata, ma anche estremamente complessa, così come mostrano le cronache delle ultime settimane.

Da una parte aumentano i casi di disturbi psichiatrici e le domande di aiuto agli specialisti, dall’altra però, paradossalmente, il numero degli psichiatri è in netto calo, tanto che da qui al 2025, tra pensionamenti e dimissioni, almeno un migliaio usciranno dal sistema, e i subentri saranno di gran lunga inferiori. Ciliegina sulla torta, all’interno del Pnrr non sarebbero previsti fondi per la cura della salute mentale. Ìmpari (e vergognoso) anche il confronto con l’Europa, dove l’Italia occupa la parte più bassa della classifica nonostante negli ultimi due anni, causa Covid, le diagnosi di depressione e di altre patologie psichiche siano aumentate del 30%, soprattutto tra giovani e giovanissimi. Gli investimenti – spiegano gli addetti ai lavori – sarebbero dovuti crescere almeno fino al 5% del Fondo Sanitario Nazionale, per poi cercare di raggiungere l’obiettivo del 10% indicato in sede comunitaria per i Paesi ad alto reddito. In realtà si è passati dal 3,5% del 2018 al 2,75% del 2020, per non parlare delle differenze (non certo trascurabili) che si registrano tra regione e regione.

Se l’allarme lanciato dalle società scientifiche del settore è – come sembra – ampiamente giustificato, allora non è solamente la cura della fase acuta della malattia a risentirne, ma anche la prevenzione e la possibilità di fare diagnosi precoce, ambiti che si vedono drasticamente ridurre i propri margini di manovra nonostante siano presìdi fondamentali per evitare guai peggiori. Un problema nel problema, se si pensa che, nonostante gli sforzi comunque fatti, il tasso dei suicidi non sembra essersi abbassato: al contrario, negli ultimi decenni del XX secolo, sembra aver registrato un incremento, in particolare tra i giovani.

Numeri, cifre e percentuali danno certo un’idea del difficile contesto in cui la psichiatria è chiamata a lavorare, ma rendere «visibile» il dramma umano che sta dietro ad ogni singolo caso di disagio psichiatrico - e di suicidio in particolare - è purtroppo impossibile, e pochi, per la verità, si sforzano di farlo. Sono argomenti che i grandi media non trattano con frequenza, e quando ciò accade, quasi mai lo fanno con rispetto, ma sempre alla ricerca di quel particolare capace di soddisfare la parte più «volgare» della nostra curiosità. Eppure dietro a un essere umano che si toglie la vita, non c’è solo la sua storia di dolore e sofferenza. Spesso c’è una famiglia, una moglie o un marito, dei figli (o dei genitori), un contesto parentale più o meno ampio, ci sono degli amici… Una piccola comunità che piange e s’interroga, cercando di capire perché non ci si è accorti di nulla, come si poteva evitare una scelta così drastica.

Ma cosa spinge un uomo a togliersi la vita? Un senso di apparente inutilità? Un’insopportabile sofferenza fisica? Un profondo disagio psichico che evoca un irresistibile senso di morte? Impossibile dare una risposta e il dilemma resterà tale proprio perché nessuno - nemmeno lo studioso più attento e preparato - sarà mai in grado di penetrare al fondo dell’animo umano, cogliendo realmente l’indefinibile spartiacque tra la vita e la morte, l’attimo in cui un uomo spinge la propria mente ad aggrapparsi alla vita pur in condizioni di difficoltà estreme oppure a scegliere l’ignoto, senza scendere a patti con niente e nessuno.

E nonostante la «pietas» cristiana con cui spesso si finisce per avvolgere - o, peggio, impacchettare - il problema, per poi metterlo da parte, non possiamo chiamarci fuori. Non è un problema del singolo o della sua piccola comunità, non può essere. L’uccisione di un uomo deve sempre essere un problema di ciascuno di noi, dev’essere la scintilla che innesca una riflessione profonda su cosa c’è nella società che non funziona e su cosa noi possiamo fare per migliorarla. Perché la società siamo noi, non è «altro» rispetto a noi, e se ognuno di noi cambia in meglio, tutta la società si fa migliore. Ma se continuiamo a rivendicare libertà individuali fatte ogni giorno di più su misura su noi stessi e sulle nostre personalissime esigenze, se continuiamo a voler soddisfare banali desideri materiali, inseguendo le mode più assurde, se continuiamo a voler semplificare la nostra vita, facendo finta che la complessità non ne faccia parte ed escludendo tutto ciò che richiede studio, approfondimento e riflessione, difficilmente la nostra società riuscirà a migliorare.

Ci vantiamo di essere connessi e interconnessi con il mondo intero grazie alla tecnologia che pervade ogni singolo momento della nostra giornata, ma si è visto chiaramente durante il lockdown che l’essere «nativi digitali» dei nostri ragazzi non li ha protetti, dato che i casi di depressione tra gli adolescenti sono raddoppiati, e uno su quattro ne porta i segni. È l’Istat a dirci che il 70% degli studenti italiani ha risentito della mancanza dei momenti di condivisione tipici della scuola e che a subirne meno le conseguenze sono stati i ragazzi stranieri, non perché più forti, ma semplicemente perché meno integrati e, dunque, con una ridotta partecipazione sociale.

«A scuola - spiega la psicoterapeuta Anna Maria Pacilli - si insegna sempre più tecnologia e sempre meno come siamo fatti “dentro”, i nostri sentimenti, che, certo, non possono essere materia d’insegnamento, ma verso cui i nostri giovani dovrebbero essere educati alla scoperta. L’animo umano non è un hardware e non può essere trattato come se lo fosse: se si rompe, non ce n’è un altro che lo sostituisce». Ma - pur con le sue mille contraddizioni e complessità - la scuola non deve essere l’unica agenzia educativa dei nostri figli se li vogliamo proteggere dal «male di vivere». Ciascuno di noi lo deve essere: la famiglia, i nonni, gli zii, gli amici, il sacerdote, l’allenatore, il vicino di casa, il commesso del supermercato, il collega di lavoro, il medico, il farmacista… Tutti, nessuno escluso. Il suicidio è la sconfitta del «noi», e l’enigma che lo avvolge è l’atto tragico che mette in scacco l’intera società. «Chi uccide sé stesso, uccide un uomo» ammoniva Sant’Agostino nei primi anni del 400 d.C. Forse era troppo severo, ma certo faceva riflettere. Facciamolo anche oggi.

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