L’autunno caldo
del governo

Spesso conta di più come si dice di quel che si dice. Ne ha offerto un buon esempio il premier Conte nell’ultima conferenza stampa prima della pausa estiva. L’actio, ossia l’impostazione della voce e la modulazione dei toni, è stata decisamente tranquillizzante, ma l’elocutio, vale a dire la manipolazione del discorso, ha tradito le aporie che si annidano nel «contratto» sottoscritto dai due azionisti di maggioranza. Parlando di vaccini il premier si è limitato a precisare che suo figlio è stato vaccinato e che questa «è la linea del governo»: non proprio quell’«obbligo flessibile» fissato dal ministro Grillo nel disegno di legge appena redatto. Sulle grandi opere, l’atteggiamento del governo è stato definito «pragmatico» ma i suoi ministri continuano ad opporre a Tap e Tav una contrarietà di principio. E le risorse finanziarie per la manovra d’autunno? «Non ci sono ma le troveremo».

Impossibilitato ad assumere precisi impegni sulle più importanti promesse di governo, in attesa che i due vice-presidenti (facenti funzioni di presidente) perfezionino un accordo, il presidente (facente funzione di vice-presidente) non poteva che affidarsi alla retorica: l’abile arte del dire finalizzata al persuadere: sempre utile ai politici, irrinunciabile quando essi non dispongano di concreti atti probanti le loro affermazioni.

Fino a quando è stato possibile, i nostri dioscuri del populismo si sono comportati come se il governo avesse due teste e due linee politiche distinte. Prova ne sia che al momento della verifica del contratto da parte dei loro affiliati, ciascuno di essi aveva stralciato i soli punti considerati parte integrante del proprio programma elettorale.

Con l’approssimarsi dell’appuntamento-verità della legge di Bilancio, con cui si debbono fissare, nero su bianco, le compatibilità di spesa, le due teste sono chiamate a parlare una sola lingua. In altre parole, non sarà loro più possibile replicare la tattica delle «convergenze parallele» di morotea memoria. Anche allora, peraltro, si vide a quale risultato portava: all’immobilismo governativo. Erano però altri tempi. Allora l’inoperosità dell’esecutivo arrecava pochi danni. L’economia anzi ne approfittava per secondare lo slancio della prodigiosa fase espansiva in corso da un ventennio.

Oggi invece non decidere, anche solo indulgere al rinvio equivale a soccombere. La Tav, la Tap, l’Ilva non possono attendere. Sono in gioco migliaia di posti di lavoro. Si rischia di dover pagare penali milionarie. Si rimette in gioco l’integrazione del nostro Paese nella rete infrastrutturale europea e la salvaguardia del più grande centro siderurgico del Vecchio Continente.

Si capisce a questo punto perché Conte si sia rifugiato nell’evasività di un dire ossimorico. Non voleva, non poteva dispiacere ai suoi vice, loro sì costretti a far la voce grossa in difesa di promesse elettorali difficilmente compatibili con l’equilibrio di bilancio, ma irrinunciabili per non perdere la faccia di fronte al proprio elettorato. Il tempo dei linguaggi doppi è finito. Con l’autunno le parallele devono convergere. Vedremo allora se sarà scontro oppure incontro o magari solo un incidente di percorso e, nel caso, chi – Lega o Movimento Cinque Stelle – subirà eventualmente qualche dolorosa ammaccatura.

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