Lavoro, non è tempo
di battaglie retrò

C’è qualcosa di schizofrenico, in questo inizio d’anno delle relazioni industriali. Dopo molte buone intenzioni annunciate su un modello nuovo di contrattazione, la ripartenza torna ad essere un irrigidimento reciproco tra sindacati e Confindustria. Eppure, in casa sindacale, emerge una forte diversità di orizzonti tra chi sta a Roma e chi opera a livello di categorie o nei territori. Per ora, solo il leader dei metalmeccanici Cisl, Bentivogli, ha denunciato la contraddizione tra centralizzazione e autonomia decentrata, invitando a scegliere, ma è probabilmente il segnale di un disagio più diffuso. Se a Bergamo si parla addirittura di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, significa che la prospettiva è un’altra.

Non aiuta certamente a risolvere il conflitto, l’operazione a tinte marcate, fortemente politica, avviata dalla Cgil per una «Carta dei diritti universali del lavoro», con firme in tutte le fabbriche del Paese, e l’intento di arrivare ad una proposta di iniziativa popolare. Affiora un’enfasi antica che ripropone addirittura lo spirito di una battaglia perduta, quella sulla scala mobile, a trent’anni compiuti da una spallata non riuscita. L’anomalia si vede meglio nei dettagli. C’è un messaggio apparentemente ragionevole, che estende i nuovi diritti a tutte le categorie dei lavoratori, per far uscire il sindacato da un angolo che lo ha allontanato dai giovani in cerca di lavoro, per la protezione di chi già è occupato, o dei pensionati.

La Carta punta a tutelare qualunque forma di lavoro, di qualsiasi impresa privata o pubblica, compresi subordinati e atipici, e – è una svolta - anche gli autonomi si meritano la qualifica di lavoratore, uscendo dal girone dei luoghi comuni sull’evasione fiscale. Ma considerare i lavoratori tutti nello stesso modo può non essere confortante come sembra, se il principio confligge poi con le novità un po’ retrò che Cgil vorrebbe introdurre, per una sostanziale rilettura distruttiva di tutto ciò che è accaduto nell’evoluzione di questi ultimi anni, jobs act in primis. Spicca, tra l’altro, non solo il recupero dell’art. 18 da poco cancellato, ma la sua estensione persino rispetto allo Statuto del 1970, perché ora il reintegro automatico scenderebbe sotto la soglia dei 15 dipendenti, fermandosi a quota 5, ma anche qui solo per quanto riguarda l’entità della sanzione giudiziale.

La «rivincita» ipotizzata adombra soprattutto un regime punitivo per le aziende, scoraggiando l’intenzione di licenziare, ma allora anche di assumere, e arrivando a estendere a tutti i datori di lavoro, anche agli autonomi, sanzioni e obblighi di svolgimento di «politiche attive» (che significa, in concreto?) per chi è già stato legittimamente licenziato. Insomma. un ritorno trionfante del contratto a tempo indeterminato rigido, con disciplina erga omnes. Il segretario provinciale Cgil Bresciani ride convinto al film di Zalone, ma alla fine gli assomiglia?

Non si era registrato, dopo tanti dibattiti, consenso su una contrattazione flessibile, decentrata, basata su innovazioni vere, corrispondenti alla nuova realtà del lavoro? Non sta su questo stesso asse la volontà di ragionare con le categorie, ad esempio con Federmeccanica, di contratti basati sulla sostituzione dell’inflazione programmata con indici di crescita del Pil e l’introduzione di elementi di nuovo welfare, accanto alla tradizionale monetizzazione? Noi ricordiamo Landini indicare positivamente il modello tedesco della Ducati, l’azienda che lavora non per reparti ma per «isole», in cui il rapporto spazio-tempo non è più dettato dal computer, ma autogestito.

L’impressione un po’ sconcertante è che il maggior sindacato nazionale voglia festeggiare la pallida ripresa attesa nel 2016 con una battaglia tutta politica, che dà forse sponda alla sparpagliata sinistra non di governo, ma con il rischio di destabilizzare il clima delle fabbriche, che invece si capisce sempre più che sono diverse l’una dall’altra, da regione a settore. Una diversità cui non può essere imposta una camicia di forza. La questione è anche un po’ bergamasca, perché a Roma c’è Gigi Petteni, e a Bergamo Luigi Bresciani, entrambi portatori di un riformismo sindacale che su questi nodi è chiamato a pronunciarsi.

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