Le banche pro Europa
L’alternativa è il default

Un gorgo nazionalista sudamericano. Questa l’unica alternativa per l’Italia a una scelta decisamente europea ed europeista. Le parole del presidente dell’Abi Antonio Patuelli, nella sua relazione all’assemblea annuale dei banchieri italiani, non lasciano spazio ad equivoci: tentennare sull’euro e sull’opzione Ue vuol dire aprire le strade al default del debito pubblico sullo stile argentino. Evocare il default dell’Argentina ha due significati. Il primo è per ricordare che il collasso è possibile anche per un Paese medio-grande,

la dimensione del default non è di per sé una salvaguardia dall’evento. Il secondo è che, a differenza di tante teorie che si vanno diffondendo a macchia d’olio, non ci sono aspetti buoni o comunque positivi legati all’eventualità: default vuol dire impoverimento drammatico e generalizzato del Paese, a cominciare dalle classi economicamente e socialmente più indifese, ma senza salvagenti per nessuno. Per evitare quindi l’eventualità e il rischio bisogna percorrere convintamente e decisamente la strada di una maggiore e più solida coesione europea. Ma qui cominciano i problemi. Non solo perché l’appeal dell’Unione europea è sceso a valori prossimi allo zero, non solo perché i partiti che raccolgono maggiori consensi elettorali non appartengono certo ai capifila dell’europeismo. Il problema è che il virus della disgregazione si va diffondendo in tutto il continente. Un virus che abbiamo contribuito a diffondere con i risultati delle nostre elezioni del 4 marzo, un terremoto che ha squassato un po’ tutta Europa. Basti guardare a quanto sta avvenendo in Germania, Paese che era considerato graniticamente solido e sul quale sta iniziando a soffiare il vento di tempesta dei populismi. Non basta rimirare il mezzo passo indietro che sta tentando la Gran Bretagna, Paese del primo grande terremoto antieuropeista con la Brexit. Non lasciatevi fuorviare dalla propaganda: la linea morbida della May, che sta causando la crisi del suo governo, è provocata soprattutto dal fatto che i principali indicatori economici di quel Paese sono in regresso rispetto le precedenti previsioni. Lo spauracchio della recessione è il primo alleato dell’ammorbidimento nelle trattative con la Ue per l’uscita.

Per tornare a casa nostra, non sono solo le politiche degli isolazionisti a giustificare gli allarmi lanciati, come quello di Patuelli. L’allarme può mettere in guardia anche da altre minacce: nel caso di un terremoto europeo generalizzato i primi a pagarne le conseguenze sarebbero i Paesi più traballanti, a cominciare dall’Italia. Anche il ministro degli Affari europei Paolo Savona – colui che aveva causato la crisi del primo tentativo di formare il governo giallo-verde col suo evocare un Piano B di uscita dall’euro – è tornato a rilanciare l’argomento dicendo che il piano potrebbe essere necessitato non da una scelta politica nostrana ma da un frantumarsi del quadro internazionale. Ma è bastato evocare l’argomento per costringere il vice-presidente del Consiglio, il pentastellato Luigi Di Maio, a correggere ieri il tiro: l’argomento è così delicato e pericoloso che non può nemmeno essere oggetto di discussioni accademiche. Il solo evocare il Piano B ci fa compiere un passo verso il default. Ecco perché l’allarme di Patuelli che segue di un solo giorno quello di Draghi al quale aveva già più volte fatta eco il ministro dell’Economia Tria. E chi ha mattoncini da portare all’edificazione della casa comune europea si dia da fare. Evitando battute da campagna elettorale che dovrebbe essere finita. O no?

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