Le ditte in difficoltà
nel mirino della mafia

La nostra è una provincia che ha sempre ascoltato la parola mafia di rimbalzo, e per questo motivo qualcuno ancora fatica ad ammetterne le infiltrazioni. «Questo è pizzo, non siamo abituati», dice candido un commercialista bergamasco intercettato in un’ inchiesta condotta nel Bolognese.
Forse perché non pochi di noi sono rimasti all’ antica oleografia del mafioso, forse perché sono convinti che la nostra terra di lavoro duro e di sudore abbia sviluppato gli anticorpi per impedirne l’ infezione.

Non è così, purtroppo. Primo, perché le associazioni criminali del Sud - da noi in particolare la ’ndrangheta - si sono fatte più subdole: l’ intimidazione non ha più le sembianze della lupara o della coppola storta, ma veste in doppio petto, s’ è fatta colletto bianco, difficilmente irrompe a esigere il pizzo tramite brutti ceffi, ma sceglie l’ ambiente ovattato dei consigli di amministrazione, del mondo finanziario, si appoggia a professionisti autoctoni e spregiudicati, presentandosi spesso come àncora di salvezza.

L’ esempio più recente è quello dell’ imprenditore di Lallio in difficoltà economiche a cui Antonio Gualtieri, calabrese poi condannato per associazione mafiosa nell’ ambito dell’ inchiesta Aemilia, offre una sponda finanziaria: finendo invece per appropriarsi dei guadagni e mandare in malora l’ azienda.

E proprio da qui nasce il secondo problema: sicuri che la Bergamasca sia dotata degli anticorpi per respingere i clan che cercano di infiltrarsi tra i nostri imprenditori? Esistono linee di credito bancarie o altri strumenti per impedire ai più disperati di vedere come unica soluzione l’ abbraccio con l’ economia-cappio proposta dai malavitosi in giacca e cravatta? Sono in grado le istituzione e il sistema imprenditoriale bergamasco di dare una risposta a quell’ imprenditore di Brembate Sopra che al pm della Dda di Bologna confida: «Per un periodo non ho avuto i soldi per dare da mangiare ai miei figli. Le banche mi avevano bloccato, non riuscivo a incassare crediti dai clienti»? C’ è qualche strumento per scoraggiare gli imprenditori con la frenesia dell’ arricchimento facile, a volte tramite la scorciatoia della tangente, come dà l’ impressione di essere quell’ imprenditore bergamasco, recentemente finito agli arresti per le mazzette dei treni per Malpensa e al quale sono stati sequestrati 10 milioni di euro? Anche lui era entrato in affari con un tipo in odore di ’ndrangheta. Le aziende, sono le aziende il nuovo bottino a cui mirano i mafiosi 2.0. Più del pizzo artigianale ai negozi. Le ditte servono per produrre fatture false e creare giri di nero. Servono per intercettare finanziamenti, servono come attività di copertura, per gestire il caporalato, a volte per finanziare traffici internazionali di droga.

In Valcalepio, scrivono i Ros in una loro informativa, esiste «una pervicace e affidabile infrastruttura dedicata all’ importazione di ingentissimi quantitativi di sostanza stupefacente e composta per lo più da soggetti autoctoni e dotati di consolidati contatti con le narcomafie sudamericane». Infrastruttura che, sono sempre le parole dei Ros, «è intimamente collegata a gruppi ’ndranghetisti radicati sul territorio del distretto di Brescia (che comprende Bergamo, ndr)». Ebbene, questa gente i fondi per investire nella droga li trova in quel groviglio di relazioni, affari, contatti e incarichi che per lo più maturano nel mondo dell’ edilizia. In pratica, grazie alle cosiddette aziende-cartiera che producono fatture false, finte operazioni, magheggi in grado di stornare Iva.

Il processo «Nduja» dei primi anni 2000 aveva visto cadere l’ associazione mafiosa in appello, ma aveva svelato degli squarci sulle possibili infiltrazioni in Bergamasca. Il giovane figlio di «cumpare» Pino Bellocco, boss della cosca di Rosarno, mandato a farsi le ossa da un calabrese residente a Carobbio degli Angeli, il recupero crediti nel mondo dei cantieri edili, il caporalato da impalcatura. Erano i primi avvisi di un’ infezione che aveva ancora riverberi da mala vecchio stampo.

Ora, invece, bisogna guardarsi dal commercialista o dall’ uomo d’ affari che si presentano come aspiranti soci prospettando aiuti finanziari e invece ti rubano l’ azienda. Il loro gioco è diventato facile, in questi tempi di crisi. Riusciranno a resistere ai loro tentacoli anche gli imprenditori che si ritrovano a dire a un pm: «Non avevo i soldi per dare da mangiare ai miei figli»? È questo che Bergamo deve domandarsi.

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