Le zone d’ombra
in vista del voto

La sfida elettorale ha assunto un carattere così ultimativo che qualcuno ha suggerito il paragone con il memorabile duello ingaggiato da Dc e sinistre il 18 aprile 1948. Ora, come allora, sarebbe in campo «una scelta di civiltà». Settant’anni fa gli italiani furono chiamati a decidere se stare nell’Occidente democratico o passare nell’Est comunista. Oggi il dilemma non sarebbe meno drammatico. La partita aperta sull’Europa avrebbe rimesso in gioco la nostra integrazione con l’Occidente democratico.

Per fortuna, rispetto all’esordio i toni della polemica si sono ammorbiditi. Al momento nessuno, nemmeno la Lega o i Cinquestelle parlano più di uscire dall’euro. Anche i più strenui avversari della tanto vilipesa euro-burocrazia si sono convinti che è meglio ripiegare su una rivendicazione meno perentoria, premendo sull’Europa perché da matrigna torni ad essere madre amorevole.

Non è molto, ma almeno su un punto, certo non marginale, s’è fatta chiarezza. È su tutto il resto che le zone d’ombra restano. Anzi si infittiscono. Complice il sistema proporzionale che offre a tutti l’alibi di poter scaricare sulle spalle degli altri la responsabilità di non aver adempiuto alle promesse fatte, non conosciamo ancora (e siamo a sole due settimane dal voto) le risposte attese a due interrogativi cruciali. Come pensano di costruire una maggioranza di governo? Quale programma intendono davvero attuare?

Di alleanze nessuno vuol parlare. Se qualcuno (ci riferiamo al centrodestra) ne azzarda una, lascia così nel vago i futuri impegni di governo da non far fugare il sospetto che si tratti di un espediente «usa e getta»: usa in campagna elettorale, getta all’apertura delle urne. Nemmeno sui programmi c’è stata una schiarita. Tutti promettono tutto per esser sicuri di non essere chiamati a rispondere di alcunché.

Poco male, si potrà obiettare: nebbia era e nebbia resta. Se non fosse che siamo ormai alla vigilia del voto e che nel frattempo ad incertezza si è aggiunta altra incertezza. Una prima complicazione è nata dallo stato di sofferenza in cui si ritrova il Pd. Il partito di Renzi pare entrato in zona pericolo. Se la sua flessione elettorale si aggraverà, le ripercussioni potrebbero essere assai gravi.

Il ribaltone del segretario, di cui si ha già il sentore, troverebbe allora il suo innesco incendiario, con buona pace di una pronta soluzione della crisi. Un’altra, non meno grave complicazione viene dal fronte dei Cinquestelle. Negli ultimi tempi il loro candidato premier si è prodigato non poco per smussare le intransigenze del movimento. S’è ritrovato tra i piedi, purtroppo per lui, il brutto pasticcio di alcuni suoi candidati, colti sul fatto a fare i furbetti, nascondendo l’iscrizione alla massoneria, gonfiando i rimborsi, barando sui bonifici.

Ne è derivato un grande imbarazzo per un partito che ha fatto della moralizzazione della politica il suo emblema. Di Maio è ora davanti ad un bivio: barricarsi su posizioni di assoluta intransigenza per non offrire il fianco ai pasdaran del movimento o, pur di scongiurare un eterno isolamento, decidersi a varcare il Rubicone e stringere un accordo con i partiti dell’odiata Casta? Sono questi i nuovi macigni destinati a pesare sulla prossima legislatura.

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