L’egemonia leghista
Tensioni nel Governo

Si stanno accumulando i motivi di tensione all’interno della maggioranza. E non è escluso che essi aumentino man mano che si entrerà nel vivo della ripresa autunnale il cui impegno principale – ma certo non il solo – sarà la legge di Bilancio, forse la più difficile dal 2011 ad oggi. La sfida lanciata da Matteo Salvini, pretendendo dal presidente del Consiglio (mero «esecutore», non dimentichiamolo), dal partito alleato, dalla magistratura e financo dal presidente della Repubblica che gli si lasci mano libera nella gestione degli immigrati per giorni trattenuti a bordo della nave «Diciotti» è il chiaro simbolo di una egemonia nel governo che il leader leghista intende esercitare senza tentennamenti.

Almeno sulle questioni che lui ritiene fondamentali per il suo mandato politico. Se è vero, come dicono le cronache, che Salvini avrebbe minacciato le dimissioni da ministro, e dunque la crisi di governo a pochi mesi dalla sua nascita, è perché sente che o esercita il suo potere fino in fondo o la sua scommessa rischia di essere perduta e il suo tentativo di diventare il capo di tutte le destre italiane risucchiato dai tatticismi di alleati e avversari. Non sarà un caso che Di Maio abbia taciuto per giorni sulla Diciotti anche quando il ministro Toninelli prendeva decisioni diverse dal suo collega dell’Interno e quando il suo compagno di partito e presidente della Camera Fico assumeva una posizione del tutto diversa e contrastante dal titolare degli Interni. Il quale, con la consueta ruvidezza, gli ha detto: «Fatti i fatti tuoi, il ministro sono io». La prudenza imbarazzata di Di Maio si spiega con quel patto tacito siglato con il contratto di governo e ancora in vigore: la spartizione delle «aree di influenza» tra leghisti e grillini. Agli uni la politica sugli immigrati, agli altri le questioni «sociali». Ma è un confine molto sottile, e più passerà il tempo, e le pratiche si accumuleranno sulle scrivanie, più i due partiti avranno la tentazione di mettere il becco ovunque. Con idee diverse. Come sulla nazionalizzazione delle autostrade, che i grillini vogliono e i leghisti no: in queste ore si è formato una specie di fronte del nord, con tutti i governatori del Carroccio o loro alleati uniti nel dire che non si torna alle Partecipazioni statali. E invece Di Maio le vorrebbe, le ri-nazionalizzazioni, per la ragione che il M5S nasce come un partito statalista, ostile all’ingerenza dei privati nella gestione dei beni pubblici.

Quando la Confindustria individua il M5S come un nemico delle imprese dice una cosa che trova orecchie molto attente tra gli industriali veneti che hanno votato Lega e adesso si ritrovano la legge Dignità che considerano alla stregua di un attentato alla ripresa. Lo stesso discorso si può fare con le opere pubbliche che i grillini hanno sempre osteggiato quando erano all’opposizione e che adesso, al governo, provano almeno a ridimensionare. Ciò che ha detto il ministro Toninelli in Commissione è agli atti: di ogni opera che citava diceva di non poterne escludere la cancellazione. Questo vale per la Tav, il Tap, le Pedemontane, ecc. Vale anche per l’Ilva che i pentastellati non solo di Taranto hanno sempre sognato di chiudere. Viceversa non c’è un solo leghista che accetti una logica di questo tipo. «Non si torna indietro» diceva anche ieri il governatore lombardo Fontana che, tanto per essere chiari aggiungeva: «Io la Pedemontana la faccio comunque». Le stesse parole di Zaia. In questo contesto, resta la domanda: come farà il ministro del Tesoro Tria a stendere prima il Def e poi la legge di Bilancio trovando un compromesso tra i due partiti, non scassando i conti pubblici, rassicurando Bruxelles e i mercati, quelli stessi che hanno disinvestito in Italia per una settantina di miliardi negli ultimi due mesi? Si tratta di mantenere - ma senza risorse o quasi - almeno il titolo delle promesse elettorali dei grillini e dei leghisti. A cosa si darà la priorità?

© RIPRODUZIONE RISERVATA