Legge elettorale
pietra d’angolo

Il presidente Mattarella s’è augurato un consenso generale sulla nuova legge elettorale, comunque più ampio di quello della maggioranza di governo. Non è un richiamo all’ovvietà, perché il sistema elettorale è il punto di partenza di tutto: racconta la storia di un Paese, contribuisce a determinarne il futuro, condiziona la distribuzione del potere e riguarda il funzionamento dell’impianto politico. E, per quanto non produca di per sé una maggiore stabilità del governo, nel bene e nel male la influenza. Il confronto, per ora, è fra il recupero aggiornato del Mattarellum e il ritorno al proporzionale. Con il Mattarellum (redatto dall’attuale presidente della Repubblica), 75% di maggioritario e 25% di proporzionale, si è votato nel ’94, ’96 e 2001 ed è la legge che ha inaugurato e attraversato buona parte della Seconda Repubblica.

Ma cosa significa maggioritario e proporzionale, almeno dal punto di vista della teoria generale? Con il maggioritario si afferma chi arriva primo e la matematica non fa sconti. La logica di questo scrutinio spinge i partiti a formare coalizioni prima del voto, il che normalmente non avviene nel proporzionale dove i giochi cominciano all’indomani delle elezioni. Il maggioritario, che premia i partiti più forti, si difende meglio sul terreno della governabilità.

Con il proporzionale c’è l’uguale assegnazione «in proporzione» dei seggi in base ai voti e il suo principale obiettivo è appunto l’equità della rappresentanza. Il maggioritario indica un chiaro vincitore, il proporzionale ci aggiunge un «dipende», perché la matematica in questo caso ha minori vincoli: si possono perdere le elezioni, ma vincere ugualmente il governo, o comunque farne parte.

Il maggioritario ha effetti distorsivi di segno opposto: un partito può conquistare la maggioranza assoluta dei seggi, e quindi governare, pur essendo arrivato secondo nel voto popolare. Il proporzionale può rendere quando dismette parte della propria identità, quando cioè è meno proporzionale (collegi piccoli, premio di maggioranza, determinati calcoli matematici): in questo caso i risultati sono in parte maggioritari. Se la domanda è «chi governerà», la visione maggioritaria risponde che «è la maggioranza dei cittadini», ai quali spetta l’indirizzo politico, mentre per quella proporzionale sarà «il maggior numero possibile di cittadini». Nel primo caso la capacità dei cittadini di controllare i propri rappresentanti eletti presuppone una chiara concentrazione del potere nelle mani di un singolo schieramento maggioritario. Nel secondo caso, quella della democrazia consensuale dove il potere è più disperso, si elegge soltanto un Parlamento il quale, in un secondo tempo e per conto suo, deciderà chi governerà.

La forza del proporzionale sta più nella storia che nell’attualità, in quanto oggi appare fuori tempo: nato a cavallo di ‘800 e ‘900 prima in Belgio e poi in Svezia, è stato introdotto in Italia da Giolitti con le elezioni del ’19 e ha consentito alle masse socialiste e cattoliche di entrare nelle istituzioni. Ha poi dominato la Prima Repubblica in base alle reciproche garanzie fra Dc e Pci, per cui nessuno poteva vincere più di tanto e nessuno poteva rimanere vittima del proprio insuccesso.

La Seconda Repubblica ha puntato su ciò che prima, per via del «fattore K», cioè del comunismo, non si poteva: l’alternanza fra i poli, secondo gli standard dei Paesi normali. Nella irrisolta questione dell’equilibrio fra rappresentanza e governabilità, ora c’è un ostacolo in più: l’irruzione dei partiti populisti che non si riconoscono nella schema sinistra-destra, sul quale si sono costruiti i sistemi elettorali dal dopoguerra ad oggi. Non solo: le forze antisistema sono prive del «potere di coalizione», nel senso che non intendono allearsi e non sono ritenute alleabili.

Queste contraddizioni si vedono bene in Francia, Inghilterra, Germania e da noi con la presenza stabile dei 5 Stelle. Se i sistemi elettorali devono comunque rappresentare, fotografare e razionalizzare le fratture della società, questo legame si fa più debole. È un rompicapo, perché, al di là delle singole convenienze, la questione è la tenuta di un sistema da reinventare. Consapevoli che il diavolo si nasconde nei dettagli e che l’irraggiungibile bontà ideale di un sistema elettorale deve accontentarsi di avere in sé il «miglior difetto».

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