L’industria non è morta
ma è vietato sedersi

L’industria non è morta, anzi. Ed è una delle nostre fortune. Un mix di dati di bilancio sul 2016, rilasciati in questi giorni dall’Istat a proposito di lavoro ed export, ci restituisce l’immagine positiva di una provincia, la nostra, che nonostante tutto ha retto all’urto della crisi e con tenacia sta risalendo la china. Sia chiaro e diciamolo subito a scanso di equivoci: non è tutto rose e fiori. Come ha segnalato sull’edizione di ieri del nostro giornale il segretario generale della Cisl bergamasca, Ferdinando Piccinini, dietro i numeri e le percentuali che danno il tasso di disoccupazione sceso di mezzo punto in un anno al 5,3%, c’è sicuramente un ritorno del lavoro, ma va indagato anche un tema di qualità dei contratti e dei relativi trattamenti economici e normativi.

A questo vanno aggiunti altri due punti delicati. Il primo riguarda la disoccupazione giovanile che, nella fascia tra i 15 e i 24 anni, è sì scesa al 25% dal picco del 30% che aveva raggiunto due anni fa, ma resta pur sempre elevata rispetto ai livelli cui eravamo abituati. Solo nel 2011 era al 15% e prima dell’inizio della crisi era attorno all’8%: un abisso. Per inciso: variano i numeri, ma la sostanza non cambia, anzi rischia di peggiorare, se si considerano fasce di età giovanile diverse, andando oltre i 24 anni, che può essere un termine entro il quale molti ragazzi sono ancora concentrati sugli studi.

Il secondo aspetto delicato riguarda l’altro polo debole delle forze lavoro ovvero i disoccupati over 50, per i quali, per altre ragioni, può essere complicato riuscire a rimettersi in gioco. Volendo, si potrebbe aggiungere anche un terzo punto nero, o quantomeno grigio: l’occupazione femminile in provincia continua a restare ferma. Bergamo, che primeggia in molti ambiti, è il fanalino di coda in Lombardia quando si parla di occupazione in rosa: è solo al 53% contro, ad esempio, il 59% di Lecco e della Brianza e il 62% di Milano, che può essere giustificato da una più alta presenza di attività nei servizi.

Ricordato ciò che ancora deve migliorare, vale la pena tuttavia sottolineare, anche con un filo di orgoglio, alcuni aspetti molto positivi che emergono dalle statistiche di questi giorni. A partire dall’industria, appunto.

Chiudere il 2016 con un incremento del 2,1% delle esportazioni, che hanno toccato un nuovo record storico a 14,46 miliardi di euro, è un merito da ascrivere quasi in toto al manifatturiero. Export, unito a qualche risveglio della domanda interna, vuol dire produzione e vuol dire lavoro. In due anni, come segnala anche un approfondimento curato dall’ufficio studi della Cgil provinciale, fra il 2014 e il 2016, l’industria è riuscita a recuperare 20 mila posti di lavoro, risalendo così dal minimo di 143 mila occupati ai 163 mila dell’anno scorso e recuperando i livelli pre crisi: nel 2008, infatti, gli occupati nelle fabbriche bergamasche erano 156 mila. È un bel segnale di vitalità, che ci ricorda come un’analisi condotta dalla Fondazione Edison con Confindustria abbia certificato che la nostra provincia è la seconda in Europa, dopo Brescia, per forza manifatturiera, davanti a concorrenti tedeschi di tutto rispetto.

Ed è un exploit che non può che fare bene a tutto l’indotto, dal mondo dell’artigianato, che vive nelle filiere produttive e non a caso nell’ultimo report congiunturale ha mostrato finalmente di essere sulla strada buona per uscire dalle secche della recessione, al mondo dei servizi che, depurato dei dati occupazionali relativi al terziario più strettamente legato a commercio e turismo, che arretrano, mostra un passo avanti consistente e, con quasi 183 mila occupati, si conferma il primo polmone in termini di posti di lavoro sul territorio.

Tutto questo, è bene rimarcarlo, è accaduto in un contesto nazionale e internazionale ancora instabile e con l’euro, a dispetto delle sirene populiste euroscettiche che soffiano contro un sogno comunitario che proprio questo mese compirà 60 anni. Onore all’economia bergamasca, dunque. Ma, va da sè, è vietato sedersi sugli allori. Il mondo corre, Bergamo non può fermarsi. Le sfide per continuare a tenere alta l’asticella del nostro manifatturiero non mancano: dall’innovazione continua (leggi industria 4.0) all’innalzamento delle competenze, con tutto ciò che comporta in termini di investimenti su persone e formazione. Temi ben evidenziati dal Rapporto Ocse, presentato ormai la bellezza di due anni fa: speriamo di vedere presto frutti concreti delle riflessioni messe in moto da quello studio.

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