L’Italia cresce
Appena, appena

È vero: il Pil, parafrasando Bob Kennedy che lo aveva già detto 44 anni fa, «non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese». Ma il Prodotto interno lordo, anche se non è un indice di benessere e di «tutto ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta», resta pur sempre un indicatore valido per capire cosa ci aspetta in termini di redditi, produzione industriale, consumi e soprattutto occupazione.

Anche per questo ieri c’era molta attesa, soprattutto nel mondo politico, per il dato Istat sul secondo trimestre del Pil: uno striminzito 0,2 per cento, simile al bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, buono cioè per tutti. Ad esempio per far dire al presidente di Confindustria Squinzi che non ci siamo («non c’è una ripresa vera») ma anche al governo per tirare un respiro di sollievo e caricarlo di attese per l’autunno che si preannuncia caldo (come al solito) in vista della legge di stabilità.

In realtà qualche elemento per essere ottimisti c’è intorno a questo dato leggermente inferiore alle attese (0,3 per cento), il secondo con il segno positivo dall’inizio dell’anno. In sintesi l’Istat ci dice che siamo definitivamente fuori dalla crisi dopo tredici trimestri di calo, il che non è poco. Naturalmente non ci sono più le riprese di una volta, come quella degli anni ruggenti 1999-2001, che cresceva dello 0,8 per cento al trimestre. Bei tempi. Sono molti di più i fattori che entrano in gioco nell’epoca della globalizzazione, ovvero della compartecipazione di nuove potenze economiche al «grande gioco» dello scambio della produzione e dei servizi. Dobbiamo accontentarci di una ripresa-diesel, lenta ma si spera consistente e costante nel tempo. Senza farci troppe illusioni, perché ci vorrà almeno un decennio per tornare ai livelli assoluti pre-crisi. Il dato poi si riempie ulteriormente di ottimismo se guardiamo alla situazione «esogena», come dicono gli economisti, essenziale per capire cosa succede anche in Italia. I numeri ci dicono che il mondo è rallentato, dal 5,5 per cento di Pil complessivo al 3,5, soprattutto a causa della frenata della Cina, il Drago che viaggiava fino a poco tempo fa a ritmi del nove per cento del Pil e che ora deve accontentarsi (si fa per dire) del 7 (ma alcuni economisti occidentali sostengono che i dati governativi siano gonfiati di un paio di punti percentuali). In Europa, poi, assistiamo all’inchiodata della Francia, a crescita praticamente zero e alle attese deluse del gigante manifatturiero tedesco, che frena allo 0,4 per cento anziché allo 0,6 per cento. Meglio di tutti in Europa sta facendo lo splendido isolamento dell’Inghilterra di Cameron. Il tutto di fronte a tre formidabili assi buttati sul tavolo europeo: il cambio euro-dollaro favorevole, il prezzo minore dell’energia, a cominciare dal brent e soprattutto il «bazooka» di Draghi, il Quantitative Easing che «butta» sul mercato 60 miliardi di euro al mese. Per consolidare questa tenue ripresa, che comunque esiste, all’Italia non resta che mettere in pratica quelle riforme che ancora non ha fatto. In Europa è tempo di riforme strutturali, anche per due giganti come Francia e Germania.

Piccola nota finale. Fa sorridere il dato dello 0,8 della Grecia,il moscerino che ha fatto meglio dell’elefante tedesco. Ma è solo un’illusione ottica: nei prossimi trimestri Atene avrà a che fare con la stretta nei conti, il blocco dei capitali e una stretta fiscale che la porterà a un’inversione di tendenza. Sono i ceppi messi dalla Merkel ai greci in cambio del condono temporaneo per la loro situazione debitoria. E purtroppo alle viste ancora non si intravvede un Solone moderno che levi quei ceppi.

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