L’Olanda fa diga
alla marea populista

Il trittico elettorale dei populisti in Europa inizia male per loro, ma non per l’Europa: il partito di Wilders non sfonda in Olanda, arriva secondo dietro i liberali di centrodestra del premier Rutte, che si candida per la terza volta alla guida del governo. Questo è quel che dicono gli exit poll di ieri sera che, dopo l’esperienza della Brexit, vanno presi con esplicita e riaffermata prudenza. Se i risultati saranno questi, significa che il fronte europeista ha comunque tenuto in quello che è soltanto il primo tempo di una partita continentale in cui è in gioco il valore umanistico di un’esperienza storica: se vuole continuare ad essere un processo, pur insufficiente e criticabile nella traduzione politica, che riunisce le diversità, o se vuole regredire verso forme illiberali di esclusione.

Il prossimo voto in Francia, la madre di tutte le battaglie, e quello a settembre in Germania potranno ridefinire o meno la geopolitica europea, ma quel che è già in agenda viene prima della politica e supera lo stesso impatto sociale ed etnico dell’immigrazione: riguarda l’idea di una società convinta delle virtù della propria storia e decisa a non tradire gli ideali che l’hanno resa un luogo abitato dal diritto e dalla democrazia. L’Olanda, per il suo peso specifico, ha un valore relativo ed è possibile che il bullismo di questi giorni della Turchia, con la controversia diplomatica, abbia in definitiva giocato a favore del governo olandese e danneggiato gli xenofobi. In ogni caso si notano tre tendenze. La prima è la sconfitta dei laburisti e si conferma un dato: quando i socialisti sono al governo con i loro avversari in una posizione subalterna (come in Olanda e in Germania), subiscono i danni e non i vantaggi della coalizione.

Il secondo aspetto è che il primo argine agli antieuropeisti viene dal centrodestra, costretto tuttavia a sua volta ad una stretta conservatrice e non è necessariamente uno sviluppo virtuoso: il principale effetto dell’antislamico ed antieuropeista Wilders è stato lo spostamento a destra dell’attuale capo di governo.

Terzo aspetto: i populisti, che nel Paese dei tulipani rimangono comunque una forza temibile, hanno il tempo dalla loro parte, perché sono movimenti dalle tante vite camaleontiche, e quindi possono stendersi sulla riva del fiume in attesa delle rovine altrui, visto che in ogni caso prosperano pur in una Olanda che ha i fondamentali dell’economia a posto. La maratona elettorale europea avviene nello stesso periodo in cui Londra avvia la Brexit e Roma celebra i 60 anni dei Trattati europei. Ed è un percorso a ostacoli. La Polonia, al pari dell’Ungheria, s’è messa di traverso. L’Inghilterra, che non vuol pagare dazio nei confronti di Bruxelles, ha in casa lo strappo della Scozia europeista che coglie la palla al balzo della Brexit per ritentare la via della secessione. Pure l’Irlanda del Nord è tentata dalla riunificazione con il resto dell’isola.

Il circolo è vizioso per un effetto domino nel segno della disunione: la Spagna è pronta al veto in sede europea per sterilizzare l’inquieta Catalogna indipendentista. Se le elezioni in Olanda allentano la morsa oltranzista, i termini dell’equazione europea non mutano nei risvolti critici.

Ieri la Federal Reserve ha alzato i tassi d’interesse e in autunno la Bce di Draghi potrebbe iniziare l’uscita dal piano di acquisti straordinari di titoli pubblici che ha fatto risparmiare all’Italia qualche decina di miliardi di euro di interessi sul debito. Come dice il governatore Visco, «l’euroscetticismo rischia di condizionare la capacità delle istituzioni europee di sviluppare politiche e strumenti per progredire nell’integrazione»

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