L’uomo è un fine
non è mai un mezzo

Care sorelle e fratelli, mentre rivolgo a tutti voi il mio saluto, ai vescovi, sacerdoti, diaconi, desidero esprimere questo saluto in modo particolare a tutte le autorità che sono qui convenute, rispondendo al nostro invito. Lo faccio con particolare sottolineatura per rinnovare il mio sentito ringraziamento per la qualificata, generosa disponibilità, manifestata da ognuno in occasione della peregrinatio dell’urna con le spoglie mortali del Santo Papa Giovanni; una peregrinatio indimenticabile, avvenuta in un clima di profonda serenità e devozione, con una risposta che ha superato ogni aspettativa. È proprio Papa Giovanni che ci introduce ad alcune considerazioni sulla virtù dell’umiltà. Innanzitutto con la testimonianza della sua vita e con quelle parole sempre sorprendenti che risuonano nel celeberrimo discorso della luna: «Cari figlioli sento le vostre voci, la mia è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero; qui tutto il mondo è rappresentato.

Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera a guardare questo spettacolo». E poi aggiungeva: «La mia persona conta niente». Non avevo mai osservato questa espressione. Il Papa affacciato alla finestra la sera dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, certamente uno dei più grandi eventi degli ultimi secoli, dice: la mia persona conta niente. È un fratello che parla a voi, diventato Padre per la volontà del nostro Signore. Ecco, introducendomi a questa piccola riflessione sulla virtù dell’umiltà, mi sembra che le parole di Papa Giovanni aprano uno squarcio, uno squarcio molto ampio su tutti coloro che non hanno fatto la scelta di essere umili, ma che in una misura incalcolabile sulla faccia della terra, oggi come ieri e probabilmente domani, vengono umiliati. Sì, il primo ricordo è di questa infinità di persone, donne, uomini, vecchi, giovani che quotidianamente vengono umiliati. Forse anche noi possiamo raccontare esperienze di questo genere. Il fatto che qualche volta abbiamo sperimentato l’umiliazione ci dovrebbe rendere avvertiti di quante persone, incalcolabili, vivono una condizione permanente di umiliazione. Sono persone umiliate a causa dell’ingiustizia, un’ingiustizia globale, un’ingiustizia che si manifesta in maniera sempre più evidente, in forme di squilibrio sociale ed economico che non sono riconducibili ad un solo Paese, ad una sola porzione del nostro pianeta, ma che ci sembra caratterizzare in maniera sempre più evidente e inquietante la condizione dell’intero mondo.

Sono le persone che vengono quotidianamente sfruttate, in tutte le maniere, con una superficialità, con una malizia che ci fa dimentichi di quelli che sono fondamenti della nostra convivenza di esseri umani. Certamente se il Vangelo alimenta queste fondamenta, la pagina che abbiamo appena ascoltato sull’esercizio dell’amore nei confronti dei fratelli, è una pagina che non possiamo dimenticare, la stessa morale laica ha raggiunto delle vette dalle quali diventa insostenibile immaginare di poter discendere: non trattare mai un essere umano come un mezzo, ma sempre come un fine. Ci sono infinite forme di sfruttamento e a volte noi stessi le abbiamo sperimentate in maniera diversa; alcune di queste si impongono e qualche volta vengono giustificate. Gli umiliati sono coloro che provano sulla loro pelle, qualche volta fin dal momento della loro nascita, la condizione di essere usati, utilizzati, sfruttati. E coloro che subiscono non solo un episodio di ingiustizia, ma una ingiustizia strutturale e, come dicevo poc’anzi, spesso giustificata. Vi sono poi coloro che vengono umiliati a causa della verità, la verità sotto tutti i profili sembra oggi essere irrisa, non c’è amore per la verità quanto piuttosto per ciò che si impone, per ciò che sposiamo qualche volta in maniera assolutamente ingiustificata e, se possibile dire, irrazionale. Coloro che cercano sinceramente la verità in ogni campo dell’esistenza umana e dell’attività umana spesso vengono umiliati, emarginati, zittiti.

Vi sono poi coloro che sono umiliati a causa della fede. Sì, perché il martirio è certamente un gesto che la comunità cristiana esalta, addirittura parliamo di trionfo, in realtà molto spesso avviene in condizioni di dispregio, di disprezzo, di umiliazione. Abbiamo appena sentito le parole dell’Apostolo che, a riguardo della testimonianza dei martiri, dice: «A voi è stata data la grazia non solo di credere in Lui, ma anche di soffrire per Lui». Cari fratelli e sorelle ho voluto partire da questa condizione degli umiliati perché parlando di umiltà non ci dimentichiamo che per molti non è virtù, ma semplicemente una condizione subìta, alla quale sono costretti. Ma appunto vogliamo parlare invece di una scelta, la scelta dell’umiltà, di coloro che diventano umili, sono i discepoli di colui che si è fatto mite ed umile di cuore e dice ai suoi e dice agli affaticati e agli oppressi: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore». È impressionante quanto avviene nell’esperienza cristiana e che non possiamo assolutamente dimenticare. Nell’inno che Paolo scrive nella lettera ai Filippesi parla di questo passaggio divino che ci stupisce e scandalizza. Vale a dire il Figlio di Dio rinuncia alla sua uguaglianza con Dio per assumere l’uguaglianza con gli umiliati, i servi e i crocifissi. «Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio essere come Dio, ma spogliò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini, dall’aspetto riconosciuto come uomo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e ad una morte di croce». L’uguaglianza, l’uguaglianza, un grande valore della nostra cultura e società. Dio rinuncia all’uguaglianza con il Padre per assumere l’uguaglianza con gli ultimi della terra. Questa è la scelta del nostro Dio.

In Dio, scrive un grande come Romano Guardini, ci deve essere qualcosa che la parola amore non comprende ancora, mi sembra che si debba dire: Dio è umile. Si dice che uno è umile quando si piega dinanzi alla grandezza di un altro uomo o quando esalta qualità di ingegno superiori alle sue o quando apprezza senza ombra di invidia meriti altrui. Ora, questa non è umiltà, è semplicemente onestà. Umiltà non va dal basso in alto, ma dall’alto in basso; non significa che il più piccolo riconosca il più grande, ma che questi si inchini con riverenza davanti al più piccolo. Quando Francesco d’Assisi si inginocchia davanti al trono del Papa, non è umiltà, ma credendo egli alla dignità del Papa è soltanto verità; umiltà è la sua quando si inchina davanti al povero, umiliandosi al suo livello, non soltanto come benefattore o come animo nobile che onora in lui l’uomo, ma col cuore illuminato da Dio che davanti alla sua indigenza si getta ai piedi come davanti a una misteriosa maestà.L’umiltà cristiana che diventa espressione della fede in un Dio umile si alimenta anche della consapevolezza di essere sempre e comunque creature; noi siamo messi nella condizione di diventare partecipi di questa condizione divina con il Creatore, ma rimaniamo sempre umili, e questo veramente alimenta un modo di concepirci, di concepire la vita e di concepire le nostre relazioni, delle sue creature. E non solo, ma l’umiltà cristiana si alimenta alla consapevolezza che siamo dei poveri peccatori, siamo dei poveri peccatori, così pronti a indicare il peccato degli altri e così faticosamente disponibili a riconoscere il nostro. L’umiltà cristiana è certamente quella di riconoscerci creature e poveri peccatori, ma ancor di più è quella di adorare un Dio che si è fatto ultimo, piccolo, crocefisso. Questo è veramente difficile.

Permettetemi di avviarmi alla conclusione indicando alcuni esercizi di umiltà. Il primo è l’esercizio che ci porta a superare l’ovvietà e la banalità con cui consideriamo la vita, ciò che accade, la nostra stessa esistenza, l’esistenza degli altri, dimenticando come l’umiltà si sposa profondamente con la meraviglia e lo stupore che illuminano la vita, aprono la vita alla speranza; umiltà significa proprio resistere all’ovvietà e alla banalità con la quale molto spesso trascorrono le nostre giornate e viviamo le nostre relazioni. Un secondo esercizio è rappresentato dal riconoscimento e dall’ossequio ad una verità più grande di me, più grande di noi; grande Mattatia che ci è stato offerto nella prima lettura, questo padre che parla ai suoi figli e dice: «Ora domina la superbia e l’ingiustizia, è il tempo della distruzione, dell’ira rabbiosa. Ora figli mostrate zelo per la legge e date la vostra vita per l’alleanza dei vostri padri». Umiltà è questo ossequio, ossequio alla legge, ossequio alla verità, ossequio alla coscienza, ossequio a Dio. Un terzo esercizio di umiltà è il riconoscimento della propria fragilità e del bisogno che abbiamo gli uni degli altri; l’esercizio dell’amore è un esercizio umile perché ci fa consapevoli, nel momento in cui amiamo e siamo amati veramente, che abbiamo bisogno degli altri; nel momento in cui amiamo una persona, amiamo una comunità, noi stiamo dichiarando che abbiamo bisogno di quella persona e di quella comunità.

Un esercizio di umiltà è la consapevolezza della relatività del contributo che possiamo dare ciascuno, un contributo necessario, responsabile, ma nello stesso tempo modesto che possiamo dare all’edificazione della comunità della casa comune. Bellissima è l’immagine evangelica; dice: voi siete il sale, voi siete la luce. Quando si mangia una pietanza, non si dice che è buono il sale, si dice che è buona la pietanza, il sale è scomparso, necessario, ma scomparso. E quando la sera si accende la luce in casa, non si dice che bella la luce, ma che bella la casa illuminata. Questa è l’umiltà che esercitiamo da cristiani, consapevoli della responsabilità che ci è affidata e nello stesso tempo del contributo relativo che ciascuno di noi può dare all’edificazione comune. E, infine, umiltà, esercizio di umiltà è questo decentramento da quella malattia da cui tutti siamo afflitti che è il nostro Io, decentramento da noi stessi e consapevolezza del comune destino. Non ci sono altre barche o barconi, siamo tutti sulla stessa barca. E la condivisione è uno dei modi con i quali noi viviamo l’umiltà. Il grande Manzoni, alla fine del suo celeberrimo romanzo, parla di quel pranzo, quasi riparatore, offerto dal marchese lontano discendente del cattivo Don Rodrigo. Fece una gran festa ai promessi sposi ormai sposi, li condusse in un bel tinello, li mise a tavola con Agnese e prima di ritirarsi a pranzare altrove con Don Abbondio volle stare lì un poco a fare compagnia agli invitati e aiutò addirittura a servirli. A nessuno verrà spero in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola: verrò dato per un brav’uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora. V’ho detto che era umile, non già che fosse un portento di umiltà. Ne aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per star loro in pari. Cari fratelli e sorelle a testimonianza umile del martirio di colui che scompare con la sua vita, a volte disprezzato e misconosciuto, chiama la Chiesa a non vivere soltanto l’umiliazione, la condizione umiliata per i propri errori e per i propri peccati, la Chiesa degli uomini, delle donne, dei ministri che sperimenta questa umiliazione a causa dei propri peccati e dei propri errori, ma noi vogliamo non solo una Chiesa umiliata, ma una Chiesa umile, umile per scelta

© RIPRODUZIONE RISERVATA