La nostra civiltà
è da difendere

La risposta armata contro l’Isis (Islamic State of Iraq and Siria) o Daesh (iniziali arabe di «Stato islamico dell’Iraq e del Levante») è necessaria ed è già in corso. Ma poiché la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ciò che manca all’imponente coalizione contro l’Isis è proprio la politica. Ciascuno tira in direzione diversa.

I massacri sul suolo europeo e mediorientale sono perpetrati dal fanatismo, ma «permessi» da una coalizione incerta e divisa. Resta vero che una strategia politico-militare adeguata non basta, se non si sviluppa una battaglia culturale verso il mondo islamico, altrettanto strategica. Affinché non si riduca alla retorica del dialogo, essa deve muovere dalla situazione reale sul campo. La realtà è che la distinzione tra «islam moderato» e «islam radicale» tiene solo sul piano strettamente politico, ma è labilissima su quello culturale. Appartengono allo stesso album di famiglia. Proviamo a leggere i documenti approvati dal mondo islamico: la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nell’Islam», emanata dal Consiglio islamico d’Europa il 19 dicembre 1981; la «Dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’Islam» approvata nell’ambito dell’Organizzazione per la Conferenza Islamica (Oci) il 5 agosto 1990; la «Carta araba dei diritti dell’uomo», messa a punto dai 22 Stati della Lega araba nel 1994 e approvata definitivamente il 24 gennaio 2008.

Perché il mondo politico-religioso islamico non ha aderito alla Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu, approvata a Parigi il 10 dicembre del 1948? La prima ragione: per segnalare una sorta di diversità «etnico-culturale» araba rispetto al resto del mondo e una vocazione globale specifica rispetto al resto dell’umanità infedele; la seconda ragione fonda la prima: i diritti umani si possono realizzare solo all’interno della legge islamica – la shari’a – o comunque nell’ambito degli assetti giuridici storici degli Stati islamici, sui quali pesa la shari’a. La shari’a è il punto di fusione tra ordinamento religioso e ordinamento civile. In alcuni Paesi essa è codice civile e penale.

Dentro questa costrizione, i diritti fondamentali della Carta dell’Onu subiscono un ridimensionamento sostanziale. Le donne hanno solo il diritto di essere «per natura» inferiori ai maschi, così come Allah ha voluto. Lo ha ripetuto la figlia di Erdogan in Tv, con il consenso del moderato (?) padre. Fortunatamente gli Stati arabi sono, qualche volta, felicemente incoerenti rispetto ai loro fondamenti. Questo li rende «moderati». Ed è invece la coerenza con i fondamenti che invocano sanguinosamente i radicali.

Che cosa possiamo fare noi che non siamo scrittori, filosofi, teologi, a contatto, qui in Europa, con circa sedici milioni di mussulmani? Gli immigrati sono una formidabile forza di evoluzione dell’Islam, potenzialmente distruttiva dell’integralismo islamico, della fusione tra religione e politica, della subordinazione della donna. A condizione che noi siamo, a nostra volta, coerenti e severi nel testimoniare e nel difendere i nostri fondamenti di civiltà. Che sono due: i diritti/doveri umani e la separazione rigorosa tra stato e religione. Per esempio: non possiamo accettare silenziosamente che nei quartieri ad alta densità islamica – da Bergamo, a Milano, a Bruxelles – venga amministrata clandestinamente la shari’a. Penso alla segregazione domestica delle donne, alle mutilazioni genitali, ai matrimoni forzati. Non possiamo volgere lo sguardo altrove, in nome del dialogo, ma in realtà del nostro quieto vivere. Se tolleriamo la subordinazione – in arabo appunto «islam» – ne saremo le vittime. Né possiamo abolire la carne “impura” nelle mense scolastiche per i nostri figli per non offendere gli islamici. O togliere i crocifissi dalle aule o non installare il presepe a Natale, per non turbare i credenti islamici. Sì, all’accoglienza cordiale, nel nome della égalité e della fraternitè, ma rigore culturale e politico nel nome della liberté.

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