Matteo Renzi
e il marasma Pd

Fino a un anno fa è stato raffigurato dagli avversari come l’aspirante uomo solo al comando. Ora Renzi rischia di fare la fine ingloriosa sempre dell’uomo solo, ma allo sbando. È chiaro a tutti infatti che, comunque si concluda l’opera intrapresa dal pontiere Fassino, restano poche speranze al Pd di riuscire competitivo nella prossima gara elettorale di primavera. Odii personali, umiliazioni subite, divergenze sul programma (dal Jobs act alla Buona scuola, alle pensioni), dissensi sulle alleanze da stringere hanno aperto un fossato tra il segretario dem e la sinistra che non è facile colmare con i soli appelli generici all’unità.

Tutto quello che probabilmente riuscirà a rimediare il volonteroso ambasciatore disponendo del solo ramoscello d’ulivo sarà, tutt’al più, uno spezzatino di coalizione (con Casini, Alfano, Nencini, forse con la Bonino, difficilmente con Pisapia). Meglio di niente si dirà, ma poca cosa per permettere al Pd di ricongiungersi col plotone di testa che si contende la vittoria finale.

Sono molti gli errori che si possono rinfacciare al giovin toscano, di merito e di metodo. Una gestione solitaria del partito. L’illusoria rincorsa degli scontenti della destra, rincorsa finita puntualmente con un nulla di fatto. La freddezza dimostrata nei confronti delle forze sociali, persino di quelle tradizionalmente collaterali al partito della classe operaia che fu. L’abozione di misure indigeste alla sinistra: su lavoro, welfare, scuola.

L’elenco potrebbe continuare e c’è da star sicuri che, sia in campagna elettorale che dopo, i suoi avversari non mancheranno di arricchirlo e di caricarlo di ulteriore acrimonia, oltre a scaricare su Renzi la responsabilità piena della resurrezione della destra: la famosa «mucca in corridoio» di Bersani che Renzi non vuol vedere.

La strada delle invettive, delle rivendicazioni, dei rimproveri sulle cose da fare e non fatte e delle cose invece da non fare e fatte è inevitabile che sia battuta da chi, non sopportando più un padrone di casa prepotente, si decide a sbattere la porta e si sente con ciò libero di dare finalmente sfogo al suo malumore.

È una strada, questa, che rischia però di non portare da nessuna parte. Sono stati molti i colonnelli, addirittura i generali, che hanno rotto con la sinistra per dar vita ad una nuova formazione capace di rilanciare le sue sorti e si sono poi dovuti accontentare di capitanare un semplice manipolo di scontenti.

Fosse solo una strada senza uscita. Purtroppo, rischia di essere anche una fuga dalle responsabilità. Responsabilità nell’immediato di aver agevolato il successo degli avversari; destra o Cinquestelle. Responsabilità in prospettiva di non aver affrontato la sfida epocale del nuovo millennio.

In settant’anni di storia repubblicana la sinistra è sempre stata minoranza: forte, combattiva, autorevole, ma pur sempre minoranza. Può davvero aspirare adesso alla guida del governo limitandosi a chiamare a raccolta tutti progressisti e nessun moderato? Per di più, ci può riuscire puntando sempre sulla stessa, solita, vecchia carta del welfare, ossia a spese sempre più alte per lavoro, giovani, pensionati, nativi e migranti, pur dovendo fare i conti con un debito pubblico astrononico e disponendo di una macchina fiscale, peraltro alquanto scassata, con cui si è ormai raschiato il fondo del barile?

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