Melegatti fallita
Italia senza difese

Fallisce la Melegatti, e dal punto di vista economico è come se fosse venuta giù l’Arena di Verona. Correva l’anno 1894 quando Domenico Melegatti, prendendo spunto da una ricetta natalizia tradizionale di Verona (il «nadalin»), inventò il «pandoro», alternativa al panettone, coniandone il nome ed escogitando la tipica forma a tronco di cono con otto punte, basata su un disegno del pittore impressionista Angelo Dall’Oca Bianca. Ieri la storica ditta ha portato i libri in tribunale per via di un pesante indebitamento, pari a cinquanta milioni di euro.

Un epilogo che era nell’aria da mesi e che neanche le iniezioni di capitali freschi dal fondo maltese Abalone, nel dicembre 2017, e del marchio di caffè trevigiano Hausbrandt sono riuscite a scongiurare. Lo scorso anno i 350 dipendenti (tra fissi e stagionali) avevano mobilitato la rete chiedendo di acquistare i pandori e scongiurare la chiusura. Forse c’è un margine di speranza per i lavoratori dell’azienda dolciaria, che ieri hanno pubblicato a loro spese sul quotidiano veronese «L’Arena» un appello ai giudici, chiedendo di tenere distinte le loro sorti (attraverso un concordato) da quelle degli amministratori, anche per l’interessamento di un fondo americano che aveva proposto un piano di risanamento, con tanto di investimento da 20 milioni di euro. Si spera anche in un intervento della Regione Veneto: ieri il governatore Zaia è intervenuto in difesa dei lavoratori annunciando di voler avviare un confronto con la magistratura. Qualche margine di tempo c’è per correre ai ripari. Di liquidazione vera e propria si potrà parlare solo dal prossimo autunno. Nel frattempo si possono valutare le offerte di chi vuole rilevare l’azienda di San Giovanni Lupatoto oppure procedere con l’affitto di uno dei suoi rami. Da valutare infine anche la possibilità di riattivare l’intera produzione, ma solo con un’adeguata copertura finanziaria ed un’effettiva convenienza.

Non è la prima volta che assistiamo al tramonto di un marchio italiano che il mondo ci invidiava. È la sorte che hanno subito centinaia di brand in questi anni, complice la crisi, che l’ha trasformata in un teatro di scorrerie finanziarie. Abbiamo dovuto dire addio alla Parmalat, acquistata dalla francese Lactalis, che aveva già al suo attivo importanti marchi italiani come Galbani, Vallelata, President, Invernizzi e Cademartori. Mezza industria alimentare italiana ha preso il volo per l’estero, come i marchi Buitoni, Motta, Baci Perugina e Antica gelateria del corso. Ma non ci sono solo i francesi, che hanno letteralmente depredato il settore agroalimentare italiano. Le multinazionali cinesi continuano a fare shopping di marchi italiani, dalla Pirelli alla Ansaldo Energia, dalla Ferretti Yacht a Krizia. Ma ci sono marchi che hanno subito una sorte ben peggiore e fanno ormai parte della storia industriale del Paese, come Sergio Tacchini, Enrico Coveri, Fiorucci, Coin e Richard Ginori. Con la crisi insomma l’Italia ha spalancato la sua cassaforte industriale e ha fatto fallire o ha venduto i suoi gioielli di famiglia. È da almeno dieci anni che se ne parla. Ma nulla è cambiato. Tutto questo ci porta a due importanti considerazioni. La prima è che l’Italia è un Paese che non riesce a rimanere competitivo in settori che una volta erano il suo punto di forza, come l’alimentare, nonostante una tradizione conosciuta ed esportata in tutto il mondo. La seconda è che i governi che si sono succeduti non hanno protetto e favorito adeguatamente queste grandi e prestigiose aziende, a differenza dei francesi, che non hanno mai permesso scorrerie finanziarie nel loro Paese. Dovrebbe essere argomento di dibattito, se avessimo un governo.

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