Migranti, la porta
è soltanto socchiusa

La notizia di cui andare orgogliosi è che in provincia di Bergamo c’è il Comune più solidale d’Italia, quello di Valleve, che ospita 86 richiedenti asilo su una popolazione di 133 abitanti. La notizia di cui arrossire è che sempre nella stessa provincia solo un Comune su quattro ha aperto le porte con forme di accoglienza ai migranti. Sono sempre di più di quelli della Valle d’Aosta, la regione più chiusa d’Italia, ma siamo lontanissimi dalla generosità mostrata da altri territori come Toscana ed Emilia, dove rispettivamente l’84% e il 75% dei Comuni ha aderito al sistema di accoglienza. Uno su quattro è un numero più basso della media nazionale, che è di poco inferiore al 50% (erano 3153 su circa 8mila a fine 2017, ma in crescita sul 2016).

Va ricordato che l’idea dell’accoglienza diffusa, lanciata dall’allora ministro degli Interni Angelino Alfano, prevedeva una media di presenza di 2,5 migranti ogni mille abitanti: un numero che avrebbe permesso di gestire in modo sostenibile l’emergenza. Con il passare dei mesi i numeri assoluti degli arrivi sono calati, ma la domanda di accoglienza è rimasta comunque su livelli alti. I percorsi dei Comuni sono quelli identificati sotto la sigla di Sprar, Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. I percorsi Sprar permettono di organizzare corsi di lingua, tirocini formativi, laboratori, attività di volontariato, con alti livelli di professionalità degli operatori e maggiori chance di integrazione all’interno delle comunità che accolgono.

Oltretutto i Comuni che aderiscono ai progetti Sprar si avvalgono di una clausola di salvaguardia, in base ad un accordo tra Anci e ministero degli Interni, grazie alla quale sul loro territorio non vengo aperti i Cas, Centri di accoglienza straordinaria, gestiti dalle prefetture, che presentano numeri più alti e situazioni più rischiose e che possono essere aperti senza che l’amministrazione locale possa avere voce in capitolo. Invece i numeri confermano che il Sistema Sprar funziona, e chi esce da un progetto di accoglienza ha un percorso d’integrazione decisamente positivo.

Questa premessa è utile per rendersi conto di quanto il chiudere le porte sia oltre che moralmente discutibile, irragionevole. È discutibile, perché la storia di questo territorio è una storia che da sempre si è connotata per spirito di accoglienza, per apertura al diverso. Qui la mescolanza si è tradotta in ricchezza diffusa e in opportunità per tutti, per chi arriva ma anche per chi è «indigeno». Numeri come quelli emersi nel nostro servizio in cronaca quindi sono numeri che contraddicono la positività di una storia e di un’esperienza consolidata nel tempo, che vede la diocesi in prima linea, capace di farsi carico della grande parte dell’accoglienza.

C’è poi una questione di ragionevolezza. Immaginare di poter restare impermeabili rispetto ad un fenomeno che ha investito l’Europa come quello dell’immigrazione e che difficilmente conoscerà arretramenti nel prossimo futuro, è un’illusione. Molto meglio invece affrontare i processi seguendo quelle buone pratiche che hanno dimostrato di funzionare, contenendo l’impatto e agevolando l’integrazione, perché è un’accoglienza che evita la logica della ghettizzazione e invece segue quella ben più positiva delle relazioni di prossimità. Del resto anche nel territorio bergamasco, a parte il caso di Valleve, ci sono numerosi Comuni che con coraggio hanno anche scelto di superare quel rapporto di 2,5 per mille abitanti indicato dal piano del ministero degli Interni. Lo stesso Comune capoluogo ha sfiorato il 5 per mille, ed è stato anche per questo inserito tra i casi pilota dal Viminale. È questa la buona strada da percorrere.

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