Mondo senza lavoro
quei diritti globali

Se non è solo uno slogan, e non può esserlo, data la grande rilevanza etica del problema, il concetto del «lavoro di cittadinanza» lanciato da Matteo Renzi, è un tema di straordinaria importanza. È necessario definirne bene i contorni, naturalmente, per evitare che possa essere usato con la stessa superficialità con cui si parla di «reddito di cittadinanza», la sovvenzione universale a carico dello Stato che secondo i calcoli dell’ultimo libro uscito in materia (Stefano Toso, per Il Mulino), costerebbe 300 miliardi all’anno. Se invece il «lavoro di cittadinanza» dovesse essere un modo per dare concretezza all’articolo 1 della Costituzione, la questione sarebbe molto più seria.

Proprio secondo l’assertiva formula costituzionale, l’Italia è fondata sul lavoro e, dato che la nostra è una Repubblica democratica, non si può certo pensare a un lavoro garantito a tutti da una pianificazione di tipo sovietico. Si è già visto come finiscono queste cose. La libertà di mercato ha consentito per lunghi decenni, sia pur con differenze territoriali significative, non diciamo la piena occupazione, che come tale non è mai esistita neppure nella Bergamo degli anni migliori, ma insomma un’occupazione diffusa, tale da consentire a tanti almeno di progettare il futuro.

Oggi, però, nell’epoca del 40% di disoccupazione giovanile, la situazione è molto cambiata e stiamo tutti formandoci una inquietante opinione, e cioè che la crisi del 2007 sia irreversibile, e conseguentemente anche la precarietà del lavoro sia un dato da considerare non più straordinario, ma strutturale.

Lasciamo stare la globalizzazione, che è un dato di fatto e non un complotto, e riflettiamo su almeno due fattori che, sommandosi oltretutto a problemi strutturali come l’esplosione ovunque del debito pubblico, hanno reso oggi apparentemente incolmabile la differenza tra domanda e offerta di lavoro. Il primo è costituito dallo squilibrio concorrenziale tra due sistemi entrati in contatto diretto: quello costoso, regolamentato, tassato del mondo occidentale e quello con bassi salari, scarse attenzioni ai diritti civili ed ambientali, trascurato fiscalmente e non regolato, di un mondo ora per di più capace di buoni livelli di qualità. Il secondo è il velocissimo sviluppo tecnologico e digitale a cui chiunque accede con facilità. Il risultato composto di queste due sole rivoluzioni produce qualcosa di quasi inesorabile: la scomparsa di milioni di posti di lavoro, solo in parte sostituibili.

È già accaduto, ma in passato, la somma algebrica finale è stata sempre positiva. Sbagliava il movimento luddista che ai tempi della prima rivoluzione industriale spingeva i neodisoccupati a distruggere le nuove macchine. Come se oggi i taxisti volessero la distruzione degli smartphone, perché incorporano l’app di Uber. Oggi la prospettiva sembra essere un’altra, per l’efficienza delle nuove tecnologie non più migliorative ma sostitutive, e sembra ci si debba abituare all’idea di un mondo in cui ci sarà da scegliere tra diminuire definitivamente i posti di lavoro, o diminuire per tanti il tempo di lavoro. È evidente che si tratta di una totale rovesciamento del modo stesso di vivere che noi conosciamo, e non siamo preparati, anche se il libro di Rifkin intitolato «La fine del lavoro» è già del 1995. Si apre una transizione nuova, su cui intervengono due ottiche diverse, una di valenza immediata e una prospettica. La prima, tradizionale, punta su sviluppo, riduzione fiscale, investimenti, taglio del debito. È l’armamentario classico su cui si affannano tutti i governi. L’altra, se vuol davvero puntare al «lavoro di cittadinanza», obbliga ad un acrobatico esercizio da capogiro: quello di preparare contestualmente gli strumenti di un futuro tanto diverso.

Sentiremo da Renzi dove vuol cominciare, con la speranza di uno sguardo lungo, oltre le elezioni. Ma sono già evidenti alcune priorità, innanzitutto culturali, educative, e di organizzazione sociale. Il digitale offre grandi possibilità di lavorare «da remoto», cioè dal tinello, ma occorrerà anche - all’opposto - cercare il lavoro migliore là dove c’è, non più sotto casa. Dopo la migrazione dei disperati, quella di una nuova forza lavoro qualificata che dovrà mettersi più volte in gioco, aggiornandosi, specializzandosi. Con grandi opportunità, ma anche un oggettivo sradicamento. Questa mobilità globale comporta un nuovo squilibrio tra datori e prestatori di lavoro, a vantaggio dei primi, più rapidi a spostare centri di produzione, delocalizzazioni, riconversioni, all’inseguimento di nuove facilitazioni fiscali, salariali, ambientali.

Ma se si usa la parola cittadinanza, ciò vuol dire innanzitutto regole uguali e rispetto dei diritti del lavoro a livello globale, e dato che i problemi sono transnazionali, occorreranno partiti e sindacati capaci di una visione internazionale, altro che sovranismi e protezionismi. Tra la tragedia della disoccupazione e l’età dell’oro della liberazione «dal» lavoro, c’è la via realistica dei diritti e della centralità del lavoratore, anzi del cittadino lavoratore.

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