Morire di schiavitù
minacce a chi aiuta

Sedici morti in tre giorni. Vittime di due incidenti stradali, erano braccianti nel Foggiano. La parola braccianti ha un sapore antico, sa di un lavoro faticoso ma dignitoso. I migranti, in prevalenza africani, usati per la raccolta dei pomodori in Puglia sono invece schiavi moderni: pagati 23 euro per otto ore di lavoro al giorno, con la schiena piegata sotto i 40 gradi di giornate afosissime, vivono in baraccopoli con «case» di lamiere recuperate nelle discariche e senza servizi igienici. Il trasporto ai campi su pulmini sovraffollati costa 5 euro. Il «bracciante» riceve un compenso di 3 o 4 euro per ogni cassone: più o meno 375 chili di pomodori, un «salario» inferiore del 50% rispetto a quanto previsto dai contratti. Per l’azienda agricola che lo rivende alle industrie di trasformazione, il cassone vale mediamente tra i 28 e i 30 euro, al netto dello scarto di prodotto. Le industrie lo rivendono a negozi e supermercati a un prezzo fra i 6 e i 9 centesimi al chilo: moltiplicato per 375, il risultato varia da 22,50 a 33,75 euro. Secondo i dati del Consiglio per l’analisi dell’economia agraria, la filiera del lavoro irregolare e del caporalato nel settore vale 4,8 miliardi, con un’evasione contributiva di 1,8 miliardi.

Gli schiavi moderni fanno notizia solo quando muoiono. Ci sono stati anche casi di decessi per fatica. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha promesso un grande giro di vite. Ci sono state dichiarazioni surreali: il governatore della Puglia Michele Emiliano (Pd) è convinto che «si può, si deve fare qualcosa e subito» (alla buon’ora) precisando che la Regione ha stanziato risorse per garantire ai «braccianti» un trasporto più sicuro. Come se il trasporto fosse il problema più urgente, e non la regolarizzazione di un mercato indecente garantendo agli schiavi moderni condizioni di soggiorno dignitose e contratti regolari.

La legge Martina contro il caporalato, approvata nell’ottobre 2016, sta dando risultati. Da una decina di processi all’anno in tutta Italia, si è passati a centinaia, come rileva Bruno Giordano. «L’applicazione in questo anno e mezzo - dice il magistrato di Cassazione ed esperto del fenomeno - ha dimostrato che lo sfruttamento del lavoro va da Nord a Sud e non solo in agricoltura. È un reato presente in edilizia, nel settore metalmeccanico, nei cantieri navali, nei servizi, come gli appalti di pulizia, di trasporto, spesso attraverso cooperative di lavoro». La legge permette di punire non solo il caporale ma anche il datore di lavoro, il sequestro e la confisca delle aziende e del patrimonio dell’imprenditore, senza l’interruzione dell’attività ma sotto un controllore giudiziario. Ovviamente chi vuole delinquere, ha preso le contromisure. Come il lavoro «in grigio»: i «braccianti», anche italiani, vengono formalmente assunti, con busta paga regolare ma per un numero di ore di gran lunga inferiore a quelle effettive. Il resto è pagato in nero o regolarmente ma va restituito al datore di lavoro. Secondo il magistrato Giordano alla nuova legge andrebbe aggiunto un coordinamento fra gli enti (Ispettorato del lavoro, Inps, Inail e ministero del Lavoro) e blitz delle forze dell’ordine con un numero di agenti maggiore.

Il rapporto «Agromafie e caporalato» quantifica in 400 mila gli schiavi moderni che lavorano nei campi, non solo al Sud. La Caritas ha aperto una decina di sportelli in tutta Italia per offrire supporto e accoglienza ai lavoratori stagionali sfruttati.

Ma come denunciava «Avvenire» nell’edizione di domenica scorsa, si registra una preoccupante crescita di intimidazioni a sacerdoti che operano in aiuto ai migranti e di vandalismi nelle chiese da parte dei fondamentalisti anti-immigrazione. Un fanatismo preoccupante ormai sdoganato. Chi lo giustifica si faccia qualche domanda.

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