Nave in ostaggio
La Politica perde

Quando due mesi fa il ministro dell’Interno Matteo Salvini annunciò la chiusura dei porti agli sbarchi d’immigrati (inizialmente solo a quelli in capo alle organizzazioni non governative, le ong), i consensi alla Lega in pochi giorni passarono dal 17% (al voto del 4 marzo scorso) al 30% (secondo autorevoli sondaggisti). Certo, un dato che non autorizza l’esistenza di una presunta egemonia nazionale salviniana, «perché gli italiani sono con me (il 70% non lo è, allo stato attuale, ndr)», come ama ripetere il ministro, ma che indica come il tema migranti sia preda facile del consenso. Facile era anche la soluzione: chiudiamo i porti. Un semplicismo che ha retto finché altri Stati (soprattutto la Spagna) si sono fatti carico dell’accoglienza rifiutata dall’Italia. Quando hanno chiuso le porte, il tappo è saltato. Ed è successo nei confronti di una nave, la «Diciotti», della Guardia costiera, appartenente alla Marina militare. Si è quindi aperto un conflitto lacerante interno allo Stato, mentre 150 eritrei in precarie condizioni sanitarie languono a bordo dell’imbarcazione a Catania.

Non ci richiamiamo ai principi umanitari o alla carità cristiana, che espongono all’accusa banale e cinica di essere buonisti. Ma stiamo sul piano del rispetto delle regole, che Salvini giustamente chiede ai migranti in Italia. Ebbene, nella vicenda della «Diciotti» il ministro ha infranto una serie di regole che non sono state scritte da anime belle o da legulei, ma da chi aveva competenze per farlo. I porti sono sotto la responsabilità dell’autorità portuale e della Capitaneria, quindi del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli (5 Stelle), invece completamente soggiogato alla forza verbale di Salvini. Il ministro dell’Interno subentra solo dopo, a sbarco avvenuto. Un’altra regola riguarda la territorialità: una volta messo piede sulla «Diciotti», gli eritrei sono in territorio italiano e lo sbarco a Catania non può essere vietato se non in presenza di gravi pericoli sanitari o di sicurezza (non è questo il caso).

Tra le soluzioni previste dal ministro per uscire dall’impasse, c’è anche il riaccompagnamento dei 150 migranti in Libia, via non praticabile perché la Libia non è considerata porto sicuro e non ha sottoscritto la convenzione di Ginevra che garantisce la protezione delle persone e fu siglata nel 1951, inizialmente per gli europei. Intanto su Facebook si leggono giudizi degli odiatori da tastiera che invitano ad affondare la «Diciotti» - una nave che ha fin qui salvato 30 mila persone - e a giustiziare il suo capitano. Nella diretta tenuta proprio in Facebook, Salvini ha parlato anche dell’intenzione di tagliare i 5 miliardi di euro destinati all’accoglienza: di questa cifra, però, non tutto va all’accoglienza, ma il 68,4%, circa 3,4 miliardi di euro. Il restante 31,6% è suddiviso per il soccorso in mare (il 18,9%), per l’istruzione e la sanità (il 12,7%). Ottanta milioni invece arrivano dall’Ue. E va tenuto in conto anche lo scomputo delle spese dal disavanzo pubblico. Nella stessa diretta il loquace ministro ha ricordato inoltre «i taxisti di clandestini» (le ong) sotto inchiesta, senza dire che tre delle quattro inchieste delle Procure siciliane sono state archiviate perché il reato (presunta collusione con i trafficanti di esseri umani) non sussiste.

Intanto il vertice di ieri a Bruxelles sulla «Diciotti» non ha portato vergognosamente (150 migranti da distribuire in 27 Paesi) ad alcuna intesa. Non ne avevamo dubbi. In Europa la politica comunitaria sull’immigrazione è sconfitta e ogni Stato va per la sua strada. L’Italia riceve da tempo pacche sulle spalle per essere in prima linea, ma poco altro. Il sistema delle quote d’accoglienza non funziona perché è su base volontaria e oggi nessun governo vuole giocarsi il consenso su questo tema. Il vicepremier Luigi Di Maio ha minacciato di non pagare più contributi all’Ue, corretto poi dal ministro degli Esteri Enzo Moavero («pagarli è un dovere legale»).

La vicenda della «Diciotti» è l’emblema di un fallimento, dell’assenza di una visione globale. Si procede a pezze, incapaci di uno sguardo complessivo e lungo. In Italia da 10 mesi gli sbarchi sono in costante calo ma in Libia la situazione politica e sociale va peggiorando. Sta inoltre saltando l’accordo fra le tribù che in Niger e Ciad controllano la via dei migranti diretti in Europa, siglato sotto la spinta dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti. Quell’accordo avrebbe avuto bisogno di una manutenzione che non c’è stata. Il successore di Minniti è più preoccupato di stringere alleanze con il suo modello, Viktor Orban, presidente dell’Ungheria, Stato che insieme a Slovacchia, Polonia e Repubblica Ceca forma il gruppo sovranista di Visegrad, contrario ad ogni compromesso sulla redistribuzione dei migranti. Alla rievocazione dei 50 anni della Primavera di Praga, repressa dai sovietici, il presidente della Repubblica ceca Milos Zeman non si è presentato. È un’Europa pericolosamente immemore della sua storia.

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