Nei rapporti istituzionali
La forma è sostanza

La vicenda Banca d’Italia. Prima e dopo la conferma di Ignazio Visco a governatore. Entrambi passaggi con scie di veleni e, peggio ancora, con pericolosi segnali di slabbrature nel tessuto politico-istituzionale. Il tutto con ricadute non propriamente positive sul già ribollente dibattito in chiave elettorale. Sulla riconferma del governatore della banca centrale Renzi ha compiuto l’ennesimo passo falso, dimostrando ancora una volta l’inattitudine al ruolo di statista. Le sue mosse sono state goffe e, insieme, sciagurate. Un politico attento alle esigenze di tenuta del Paese non avrebbe nemmeno pensato a dare una «spallata» a Visco mediante un’avventurata mozione parlamentare. Avrebbe cautamente proposto senza clamore, in opportune sedi riservate, una soluzione di ricambio. Renzi ha preferito, al contrario, partire a testa bassa, riuscendo soltanto a perdere una partita che poteva vincere.

Si è detto che gli argomenti della mozione non erano peregrini, perché richiamavano le evidenti manchevolezze verificatesi nella vigilanza sul sistema bancario. Vero, ma ciò non basta a giustificare l’errore. Nel rapporto tra istituzioni la forma è anche sostanza. Nel caso specifico occorreva riflettere in anticipo sulle possibili ripercussioni di un attacco scomposto al vertice della più importante e tradizionale autorità indipendente del Paese. La legge bancaria del 1936, nel delineare l’autonomia dell’istituto di Palazzo Koch, aveva conferito ad esso una posizione di particolarissima autonomia, derivante dalla sua altissima funzione di garanzia e tutela. Non a caso, fino a tempi recenti, l’incarico di governatore della Banca d’Italia era a vita.

Il dopo, non sembra stia procedendo meglio. Le accuse e controaccuse roventi (le ultime tra la banca centrale e la Consob) non fanno che danneggiare ulteriormente l’immagine di un’istituzione al cui prestigio tutti dovrebbero tenere. Il perdurante clima di guerra senza quartiere non sta soltanto esponendo al rischio di delegittimazione istituzioni fondamentali per la tenuta del sistema, ma denota la progressiva tendenza della politica a esondare continuamente dai suoi ambiti. Con rischi assai seri per l’equilibrio dei poteri. Nell’azione di governo di questo inizio di secolo sembra affermarsi la volontà – nemmeno troppo nascosta – dei partiti di riconquistare una centralità scossa dagli scandali e dalle lotte intestine a ciascuno di essi. La parte più visibile è nei tentativi di riagguantare spazio rispetto alle «odiate burocrazie». Siano esse gli apparati ordinari delle amministrazioni, quanto le istituzioni di garanzia. Rappresentanti politici anche di secondo piano, quotidianamente si mostrano pronti a dichiarazioni – spesso inconcludenti o del tutto inopportune – su qualunque argomento. Per non parlare dei leader di partito che sembrano del tutto inconsapevoli della responsabilità derivante dal solo essere (o proclamarsi) leader. Un ceto politico che discetta di tutto, interviene su tutto, parla di tutto. Sovente con palese incompetenza e quasi sempre con somma arroganza.

Al fenomeno non è estraneo il sistema dei media. Tutt’altro. Poiché – al contrario di ciò che suggerirebbero la logica e l’etica – si è diffusa l’abitudine di lasciare spazio sui media a politici che parlano a sproposito, che intervengono per dire il nulla sull’universo o per insultare l’avversario. Al di là delle esuberanze verbali e delle conclamate mediocrità che tocca registrare nel dibattito pubblico, c’è un elemento di fondo sul quale riflettere. Il potere politico – per definizione - è legittimato dal consenso. E tale elemento non può essere messo in discussione nemmeno di fronte all’evidente pochezza di molti dei suoi rappresentanti. Ma la legittimazione democratica non implica subordinazione delle istituzioni ai politici. Il «comando politico» è una funzione da esercitare, non un titolo di superiorità.

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