Nel puzzle del voto
il domino è Gentiloni

Renzi, nella prima uscita pubblica dopo la sconfitta al referendum, non ha scoperto le carte e non ha raccolto la sfida di D’Alema, anche se rimane l’obiettivo di votare entro giugno. L’intervento di ieri a Rimini, dinanzi agli amministratori locali del Pd, è stato soft sui contrasti interni. Le notizie sono altre. La prima è quella dello strappo di D’Alema e dei suoi, che appare come l’anticamera di una scissione: l’annuncio di una frattura, che va oltre lo stesso dissenso di Bersani, reiterato ma fin qui circoscritto. Lo scarto dell’irriducibile avversario di Renzi avviene nel tempo del ritorno della legge proporzionale dopo la decisione della Corte costituzionale.

Questo sistema elettorale premia la rappresentanza, ma mette in difficoltà la governabilità e incentiva la frammentazione dei partiti: in questo senso può rappresentare un’insidia per l’unità del Pd, se non per la sua stessa sopravvivenza. L’ombrello del proporzionale potrebbe quindi dare riparo agli ipotetici scissionisti, sempre che i calcoli di D’Alema si rivelino esatti: al Senato c’è uno sbarramento d’ingresso dell’8% che è un ostacolo per l’area alla sinistra dei dem.

La seconda notizia della giornata viene da Gentiloni, il quale ha detto che «sulla durata della legislatura non decide il governo». In sostanza, il governo si chiama fuori e lascia la contesa sul voto sì-voto no al dibattito fra i partiti, accompagnando semmai una scelta il più possibile condivisa.

Facendo un passo avanti, e considerando la lealtà del premier verso il Pd renziano filtrata proprio in queste ore, si può ritenere che il capo del governo non si metta di traverso all’idea di Renzi di votare quanto prima. Ma chi stacca la spina? Non può permetterselo Renzi, specie dopo aver già dato il benservito a Letta. Dunque, il ruolo di Gentiloni in questo puzzle è essenziale.

Dobbiamo aspettare una quindicina di giorni per sapere le motivazioni della Corte costituzionale, ma per risolvere il rebus elettorale il Pd renziano deve andare in Parlamento per tentare almeno di migliorare le due leggi, Camera e Senato, rendendole più omogenee: un passaggio obbligato sul quale Mattarella è stato esplicito. Ma, attenzione: la sentenza della Consulta è autoapplicativa e rende disponibili i due sistemi elettorali, sostanzialmente compatibili per i giudici.

La situazione è complicata e qualsiasi soluzione ha controindicazioni, a cominciare dalla bontà o meno del proporzionale: più che accettato è subito, nell’intento che sia sostenibile per governare non più due poli ma tre. Il limite è che ognuno gioca la propria partita sulla base esclusiva delle convenienze, cercando soluzioni del momento valide fin quando sta in piedi l’equilibrio che si vuol costruire.

I 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia accelerano verso il voto, perché sentono il vento favorevole. Renzi, che nel partito non dispone più di una delega in bianco, dal suo punto di vista è nella peggiore delle condizioni: quella di essere cucinato a fuoco lento, mentre c’è aria di manovra correttiva e di tempi restrittivi per i conti pubblici.

Un assist per Grillo e Salvini, il rischio per Renzi di apparire alla Monti. La corsa al voto potrebbe essere frenata se il governo riuscisse a definire un’agenda da qui al prossimo anno, fissando priorità e obiettivi: dal post terremoto alle banche, dalle ferite sociali ai temi internazionali. Se non c’è consenso su questa alternativa, il voto ravvicinato può diventare praticabile, forte del fatto che un anno nell’incertezza totale si risolverebbe in una paralisi velenosa. Comunque la si guardi, è una prospettiva che segue la logica del male minore.

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