Non c’è l’intesa
Trattativa lunga

L’accordo non c’è. Non c’è ancora. E chissà se ci sarà mai. Tra Lega e Movimento Cinque Stelle la trattativa per la formazione di un nuovo governo è decisamente in salita. Eppure domenica pomeriggio Luigi Di Maio aveva telefonato al Quirinale per dire che erano pronti a riferire «su tutto». Tant’è che Mattarella ieri ha fatto allestire rapidamente un giro di consultazioni a due, prima i grillini e poi i leghisti. Ma la promessa del capo pentastellato era forzata: non solo i due partiti non hanno ancora trovato l’accordo su tanti temi (l’Europa, l’immigrazione, le grandi opere, ecc.) ma sono stati costretti a sorvolare su molti altri.

E poi, soprattutto, non hanno la minima idea della persona cui affidare la presidenza del Consiglio. La quale, beninteso, dovrebbe arrivare a cose fatte, cioè dovrebbe presiedere un governo e applicare un programma cui non ha dato il minimo contributo. Una specie di amministratore di condominio, insomma: non sorprende che siano fioccati subito i «no, grazie» (Tabellini, Cottarelli, Vago, ecc.). Peraltro Di Maio e Salvini non sono d’accordo nemmeno sul profilo che dovrebbe avere il presidente del Consiglio: tecnico o politico? Tecnico no, perché si ricadrebbe negli esecrati «governi alla Monti» su cui sia leghisti che grillini hanno fatto la campagna elettorale rivendicando «un premier eletto dal popolo» e rifiutando quelli «nominati con l’inciucio di palazzo».

Non tecnico, ma nemmeno politico dal momento che – esclusi i leader – se si nominasse un parlamentare grillino il governo avrebbe un’immagine che i leghisti rifiuterebbero, e viceversa. Dunque? Dunque l’accordo non c’è. Servono giorni, dicono entrambi i capi cui non sono bastate le ripetute riunioni prima milanesi e poi romane per mettere un punto. Anche perché in realtà Di Maio non ha proprio rinunciato all’idea di diventare lui l’inquilino di Palazzo Chigi: è vero che ha fatto formalmente un passo indietro ma il colloquio reso pubblico da Giorgia Meloni («appoggiatemi voi di FdI e vi faccio entrare al governo con due ministeri, ma se mi dite di no metto il veto su di voi perché siete troppo di destra») dimostra che le ambizioni restano intatte. E chissà come finirà. Per il momento di questa confusione ha fatto le spese l’ottimo professor Giulio Sapelli, economista leghista no-euro, contattato nel cuore della notte e pronto ad offrirsi alla Patria. All’alba però il suo sogno di gloria era già svanito: pare che avesse buttato giù anche una bozza di lista dei ministri. Anche un certo professor Conte, amico di Di Maio, è stato bruciato sull’altare dei veti reciproci.

In tutto ciò Mattarella ha sì concesso qualche giorno in più ai contraenti – di fatto sino al fine settimana quando entrambi i partiti avranno sottoposto l’alleanza al vaglio dei loro militanti, nei gazebo o on line – per dimostrare che non ostacola la formazione di un governo politico, ma non ha fatto nulla per nascondere una irritazione che ieri sera colava abbondante da tutti gli spifferi del palazzo del Quirinale. In primo luogo perché Di Maio aveva detto che erano pronti, e non era vero; in secondo luogo perché il Capo dello Stato non è disposto a mettere la firma per incaricare qualcuno che non risponda ai parametri minimi per fare il presidente del Consiglio di un Paese di 60 milioni di abitanti con una delle più importanti economie del mondo, socio fondatore dell’Europa e inserito nel sistema delle alleanze occidentali. E anche sui ministri - almeno su quelli più importanti come Interni, Esteri, Economia e Difesa - Mattarella dirà la sua opinione, e sarà vincolante. Fino a quando durerà la pazienza del presidente della Repubblica? Se Salvini e Di Maio falliscono, un istante dopo si formerà «il governo del presidente», probabilmente presieduto dall’ambasciatore Massolo.

In tutto ciò Berlusconi, rinfrancato dalla riabilitazione politica e pronto a rientrare in Senato, non nasconde il proprio scetticismo sulla riuscita del tentativo giallo-verde: ha fatto il sospirato «passo di lato», ha detto, per togliere ogni alibi sia a Salvini che a Di Maio. «Se si vanno a schiantare, sarà solo colpa loro» si sente dire ad Arcore. Quanto al Pd, oltre a promettere «un’opposizione durissima», per il momento è impegnato soprattutto a curarsi le ferite della sconfitta elettorale e a discutere delle questioni interne.

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