Perché il mondo
tifa per Hillary

Quattro mesi fa, all’inizio della stagione delle primarie, nessuno – ma proprio nessuno – avrebbe immaginato né che l’outsider Trump avrebbe sbaragliato i rivali e ottenuto la certezza della nomination repubblicana molto prima della Convention del partito, né che Hillary Clinton sarebbe stata costretta a lottare fino all’ultimo per respingere l’assalto di un semisconosciuto senatore settantatreenne, unico politico americano a autodefinirsi socialista.

E nessuno – proprio nessuno – avrebbe pensato che la partita finale per la Casa Bianca sarebbe stata giocata da due candidati sgraditi alla maggioranza degli americani: da un recente sondaggio, risulta infatti che il 64 per cento ritiene che né Trump, né la Clinton siano «onesti e degni di fiducia», e più della metà afferma di avere «un’opinione negativa» di entrambi. Ultimo paradosso: Trump, rappresentante della destra e multimiliardario, è – un po’ come la Le Pen in Europa – il portabandiera del voto di protesta delle classi medie e medio-basse bianche che si sentono discriminate dall’establishment e dalla globalizzazione e che in teoria dovrebbero stare dall’altra parte; Hillary, candidata della sinistra, è invece accusata di essere asservita agli interessi di Wall Street, è detestata dalla maggioranza dei «liberal» e dei giovani che continuano a sostenere Sanders e - dopo un rapporto dell’ispettore generale del Dipartimento di Stato - rischia perfino di essere incriminata per l’uso abusivo dei suoi sistemi di comunicazione privati per e-mail riservate o addirittura segretate.

Ma tant’è, questa e la situazione e il resto del mondo deve cominciare a prepararsi. Fino a poche settimane fa, si supponeva che Hillary avrebbe vinto a mani basse, ma dopo che Trump è riuscito – sia pure con diverse eccezioni – a ricompattare dietro di sé un partito repubblicano che lo ha osteggiato fino all’ultimo, il divario si è ridotto a 1-2 punti percentuali e rischia di svanire prima di novembre. La situazione è precipitata al punto che Obama ha ritenuto necessario sollevare la «minaccia Trump» addirittura al G7, presentandolo come un arrogante incompetente che minaccia gli equilibri mondiali.

Stando alle dichiarazioni rese durante la campagna elettorale, il monito sembra giustificato: il candidato repubblicano vuole che l’America rimanga la prima potenza mondiale, ma non crede più nella Nato, ritiene che gli alleati debbano pagare per la propria sicurezza, vuole denunciare il recentissimo accordo sul clima rilanciando la produzione di carbone e petrolio, espellere gli 11 milioni di immigrati illegali, costruire un muro lungo la frontiera con il Messico, denunciare i trattati commerciali che hanno messo in ginocchio una parte dell’industria americana, e molto altro ancora, tra cui una mezza guerra alla Cina.

Gli analisti si chiedono se tutto ciò, gridato ai quattro venti con un linguaggio semplice e spesso volgare, ma gradito a un corpo elettorale «arrabbiato», rappresenti il suo vero programma o servisse solo a mobilitare le sue truppe. Con ogni probabilità, la verità sta nel mezzo: le idee-base di Trump sono queste, ma una volta calato nel ruolo presidenziale, resosi conto delle sue responsabilità e contornato da ministri, consiglieri e funzionari più moderati finirebbe con il mettere molta acqua nel suo vino. Intanto, per la politica estera, ha «arruolato» un uomo della levatura di Kissinger. Certo, i rapporti degli altri leader mondiali con lui non sarebbero facili.

In caso di vittoria di Hillary, invece, non cambierebbe molto nelle relazioni internazionali. A giudicare dal suo operato come Segretario di Stato, sarebbe probabilmente più interventista di Obama, più vicina a Israele, più orientata verso l’Europa che verso l’Asia. Per questo, nonostante i suoi molti difetti, in giro per il mondo la maggioranza farà il tifo per lei.

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