Piccoli paesi e un’idea
di futuro più vivibile

Lo studio dell’Anci sulla qualità della vita nei piccoli comuni ha il pregio di mettere in evidenza un elemento peculiare che rischia, purtroppo, di rimanere sempre sullo sfondo quando si parla di «terre alte». Perché una volta tanto non si parla (solo) di strade, di frane, di scuole, di uffici postali e sportelli bancari. Cioè di quello che manca. Questa volta l’obiettivo si focalizza su quello che c’è. E fotografa una realtà dove, detto molto semplicemente, si vive bene e si vive con meno. Aria pulita, più fiducia nel prossimo, più partecipazione.

Chi vive nei piccoli centri, si legge nelle statistiche diffuse da Anci, è più soddisfatto. Ora, è evidente che siamo di fronte alla certificazione di un luogo comune, che rischia di scivolare in un esercizio retorico da nostalgia per l’età dell’oro (quella dei «bei tempi andati», della «sana e autentica vita di montagna»…). Cercheremo di non cascare nel tranello. Però, una volta di più, e con il conforto dei numeri, è evidente la proposizione di uno stile di vita alternativo, più rilassato rispetto ai tempi contingentati e nevrotici dei grandi spazi urbani. E anche più solidale, più a misura d’uomo. I numeri ci dicono anche altro: che questo stile di vita è sempre più residuale. Nella Bergamasca, tra il 2015 e il 2016, la popolazione dei piccoli Comuni è calata del 3 per cento. Un’erosione continua, ormai cronica, in cui l’elemento migratorio pesa più della bassa natalità (anche se entrambi gli indici hanno il segno negativo). Sempre meno, ma felici? Slogan facile per un problema estremamente complesso. E infatti, basta prendere il caso del punto nascita dell’ospedale di Piario per toccare con mano quanto sia difficile conciliare il diritto di vivere in montagna con la garanzia di servizi essenziali ma specializzati, che in territori più densamente popolati sono la normalità.

Si pongono quindi almeno due questioni. La prima, la più diretta, quella rispolverata con puntualità dal senatore Antonio Misiani, è quella delle risorse. Senza finanziamenti specifici, senza aiuti mirati, la montagna non sopravvive. C’è il nodo della legge, per ora ancora sulla carta in mancanza di decreti attuativi, che istituisce un fondo ad hoc. Ma c’è anche il giogo della burocrazia: l’abbiamo visto in azione con la variante di Zogno, per esempio, ormai alle battute finali (si spera: da essa dipendono i destini di aziende, lavoratori, famiglie) dopo decenni di tira e molla. Ma c’è anche una seconda questione, più indiretta, che riguarda il destino di queste (scarse) risorse. Perché, lo abbiamo visto anche con il traumatico fallimento di Brembo Ski e con l’inquietante strascico giudiziario che si sta delineando: non bastano i finanziamenti, bisogna saperli gestire. E farlo in modo strategico, perché non sempre «più piccolo» e «più locale» sono sinonimo di «più accorto» e «più lungimirante».

La ricerca Anci segnala che il benessere generale non si misura solo in termini di servizi, di infrastrutture, di ricchezza materiale, ma anche e soprattutto in stili di vita alternativi a quelli metropolitani. Se i nostri centri montani tornano a popolarsi nei mesi estivi di famiglie provenienti dalle zone più urbanizzate della provincia e della regione, alla ricerca di un ambiente più sano e più autentico, forse è da qui che bisogna ripartire. Da quello sterminato serbatoio di cultura rurale, socialità diffusa e buone pratiche che è la galassia della nostra provincia. Dal patrimonio di quelle 168 comunità (sono i comuni sotto i 5.000 abitanti nella Bergamasca) che ogni giorno, con caparbietà e con semplicità, quasi mai sotto i riflettori, costruiscono, nel piccolo, un’idea di futuro. Ecco, prima ancora di parlare di risorse, impariamo a capirla e a rispettarla, questa idea.

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