Piccolo, grande
amore italiano

Umberto Eco non attribuiva il successo di Casablanca agli attori (Humphrey Bogart e Ingrid Bergman) bensì a un paradosso. Non è un film, argomentava, è tanti film insieme, è un’antologia, c’è dentro tutto e il contrario di tutto: «Due cliché fanno ridere, cento commuovono». Il ragionamento vale anche per Sanremo. Il minestrone festivaliero ci ha propinato l’adrenalina della gara (ma senza il sangue dell’eliminazione reality style), la polemica (il brano autoplagiato prima escluso poi riammesso, come se ci fosse il Var), l’emozione dei debuttanti, l’orgoglio dei veterani, piccole stravaganze innocue, il circo Barnum (l’ottuagenaria snodata), il brivido del proibito (la scollatura malandrina di Noemi) e via elencando.

Gli snob con la puzza sotto il naso se ne facciano una ragione, ormai il Festival è più di un appuntamento irrinunciabile, è diventato una ricorrenza del calendario. Come Ferragosto e il Primo Maggio. Sanremo è come la Democrazia cristiana. Decenni di prassi di governo ne fecero un mostro di resilienza, balena bianca in grado di flirtare a destra e sinistra senza mai perdere il controllo del centro, il letto caldo dove riposa il corpaccione elettorale che stantuffa stanchezze secolari ma tiene in piedi il Paese. Partito politico nel senso pieno del termine (adesso vanno di moda i movimenti, e non è detto che sia un progresso), prima di spiaggiarsi su Tangentopoli la Dc sopravvisse a lungo alle sue contraddizioni e alla fine anche a se stessa, fino a quando quel galantuomo di Mino Martinazzoli non le staccò la spina nella speranza che dalle ceneri risorgesse non già un’appartenenza, bensì una coscienza.

Come la Dc, più della Dc, il Festival di Sanremo è un mostro. Di longevità. E proprio come un partito politico d’antan si adatta camaleonticamente alle stagioni di un’Italia che, invecchiando, un poco s’incanaglisce. Il suo segreto sta tutto in un aggettivo di nobile e gramsciana memoria, nazionalpopolare, parola magica che rivela un’identità e spiega un successo.

In fondo, è semplice. Le canzoni sono la sintesi di due antiche passioni italiche, musica e poesia. Complice la televisione nascente, e grazie al Festival, settant’anni fa l’Italia comprese che poteva guardarsi allo specchio senza perdere la faccia. Sanremo non è solo l’immagine riflessa di una nazione facile all’umor nero, è lo schermo su cui proiettare desideri, esorcizzare fantasmi, anestetizzare debolezze gaglioffe e cialtrone.

Sanremo è un carrozzone che va avanti per inerzia, non sono i presentatori a determinarne la sorte. Riavvolgete il nastro della memoria: lasciamo stare Pippo Baudo, ma vi ricordate Bonolis, Conti, la Clerici? E Fazio, l’intellettuale che piace alla sinistra salmonata? Sembravano insostituibili, poi è arrivato un vecchio cantante che non ha mai presentato niente in vita sua e li ha umiliati nella battaglia dell’Auditel, l’unica che conta davvero, perché con i record d’ascolto di queste cinque serate la Rai sistema il bilancio di un anno, potendo negoziare da padrona i contratti pubblicitari.

Accoccolato alla finestra della campagna elettorale, Baglioni ha fatto il golpe. La sua rivoluzione ridisegna l’aggettivo nazionalpopolare per riscrivere la sintassi di una nuova stagione televisiva che darà i suoi frutti più avanti. Ha messo l’accento sul nazionale, cioè sull’identità italiana, e il popolo si è attestato volentieri sul Piave dell’autarchia. Mai visti così pochi ospiti stranieri sul palco dell’Ariston. Tolti Sting e James Taylor – per altro non esattamente pensati per un pubblico giovanile, ossessione di ogni palinsesto – sul palco c’erano solo italiani, molti cantanti e qualche mascalzone latino, come Fiorello, che ha fatto decollare gli ascolti. Con l’aria di uno capitato lì per caso, tristolone lentissimamente inamidato, Baglioni ha fatto tutto quel che doveva fare e l’ha fatto discretamente bene. Se nessuno in queste sere ha rimpianto Maria De Filippi il merito non è tutto e solo di Michelle Hunziker.

Per rimettere al centro l’Italia e le canzoni ci voleva, evidentemente, un totem della cultura popolare. Una volta avremmo definito le sue canzoni la «colonna sonora del Paese». Lui, sul palco, le ha riproposte con intelligenza e ironia. «Ma perché interrompono sempre il concerto di Baglioni con delle canzoncine da poco?», è una battuta che ha impazzato sui social, che rende onore a una carriera invidiabile e fa giustizia di antiche cattiverie.

Non era mai andato a Sanremo, anche quando i suoi capolavori umiliavano nelle classifiche di ascolto e di vendita le reginette diafane di un Festivalino senz’anima il cui declino sembrava inarrestabile. Allora i social network erano un’ipotesi futuribile e la televisione tiranneggiava con pretese monopolistiche il tempo libero degli italiani. Lui, per salire sul palco dell’Ariston, ha atteso di avere quasi 70 anni. È stato un trionfo. Sembrava che gli italiani non aspettassero altro. Ci manca già. Passerotto, non andare via.

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