Piè veloce Renzi
e la palude di gennaio

Matteo Renzi ha imposto le marce forzate al Parlamento e al governo, incurante della settimana di pausa natalizia. Lunedì scorso la Camera ha approvato in via definitiva la legge di Stabilità; mercoledì – vigilia di Natale – un insolito Consiglio dei ministri ha varato i primi due decreti attuativi della riforma del mercato del lavoro.

Uno ancora «salvo intese»: vuol dire che è un testo non definitivo. Poi ha nazionalizzato per trentasei mesi l’Ilva, messa a terra dalle iniziative giudiziarie, e ha nominato i vertici dell’Inps e dei carabinieri. Per aver riunito i ministri a poche ore dal cenone, non è poco. Ma questo è lo stile Renzi: correre e tagliare traguardi, perché se ci si ferma si è perduti. Del resto, il vero nemico del premier è la palude, quella che ingoiò Enrico Letta.

Ora però Renzi deve affrontare un gennaio non meno impegnativo. Anzi, un mese di quelli da ricordare su Wikipedia, se si mettono in fila le cose da fare. Innanzitutto bisogna concludere bene il semestre di presidenza europea. È vero che quel che è fatto è fatto, e non è certo moltissimo, ma Renzi davanti all’Europarlamento nel discorso di fine mandato dovrà dire qualcosa di forte in faccia ai falchi del rigorismo, e dovrà rivendicare il merito di aver insistito per rimettere al centro dell’euro-agenda la parola «flessibilità» accanto, se non al posto di «austerità». Il direttivo della Bce che dovrà decidere l’acquisto dei titoli di Stato dei Paesi in difficoltà è previsto per una decina di giorni dopo il discorso del primo ministro italiano, e questi vorrà cercare in qualche modo di fornirne un’anticipazione politica, sapendo bene che la decisione che Mario Draghi si appresta a prendere è vitale per tutto il fronte sud dell’Unione, a cominciare dall’Italia. In quell’occasione, Renzi potrà vantare l’approvazione di una legge di Stabilità espansiva, del Jobs Act e dei suoi decreti attuativi, rispondendo così alle tante riserve che dal Nord continuano a piovere sulle nostre promesse non mantenute.

Ma questo è l’antipasto. Già dalla prima settimana di gennaio l’esame della riforma elettorale e di quella costituzionale, in discussione nei due rami del Parlamento per la seconda votazione, dovrà subire una forte accelerazione per arrivare a tappe forzate al voto prima che scada il semestre, al termine del quale Giorgio Napolitano ha fissato le sue dimissioni. Se Renzi vuole impedire che le riforme diventino una merce di scambio per l’elezione del nuovo Capo dello Stato (e impedire che Berlusconi riprovi ad alzare il prezzo per concedere i suoi voti ad un candidato indicato dal Pd) deve incardinarle nel modo più sicuro possibile. Le trattative sono in corso, l’accordo del Nazareno è stato rinsaldato, la minoranze del Pd e di Forza Italia sono state in qualche modo calmate, ma c’è da scommettere che sorgeranno in breve nuove difficoltà, nuovi ostacoli. E nuovi ricatti.

Tutti sanno che l’elezione del successore di Giorgio Napolitano sarà l’occasione propizia per cercare di dare un colpo al Patto, al governo Renzi e allo stesso Berlusconi. I franchi tiratori non esiteranno a sparare i loro colpi nel buio. Il premier sta cercando di eleggere il nuovo presidente ricorrendo al cosiddetto «metodo Ciampi» (un accordo molto largo che produce la fumata bianca già al primo scrutinio), ma le probabilità che ci riesca sono obiettivamente poche.

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