Polemica sui Savoia
La memoria labile

Davvero nessuno sentiva il bisogno di una polemica sui Savoia. Sul ritorno in Italia della salma di Vittorio Emanuele III e, inevitabilmente, sulla sua corresponsabilità nel Ventennio del Fascismo, dell’alleanza con il Nazismo e della Seconda guerra mondiale, sulle leggi razziali del ’38 che lui firmò, sulla ignominiosa fuga da Roma a Brindisi dopo l’8 settembre. Capita proprio ora che siamo alla vigilia di una cattiva campagna elettorale mentre vediamo qua e là accendersi fuochi di revanchismo fascista o addirittura para-nazista

che pensavamo soffocati da tempo, e si svolgono manifestazioni inquietanti di giovanotti dalla testa rasata. Questa polemica sui Savoia non aiuta, insomma. Ma ci ricorda due cose. La prima è che la nostra memoria unitaria e nazionale è labile. Se interrogate un liceale sulla sequenza dei Re d’Italia, che pure sono pochi, difficilmente saprà ripetervela, e non ne ha nemmeno gran colpa. La seconda è che questa memoria è labile perché scarsamente condivisa, poco sentita, poco studiata. Dovremmo riandare al dibattito politico e storiografico su come l’Italia si è unita, sul dubbio di molti che noi davvero siamo una Nazione e – eccoci – sul ruolo che ebbero i Savoia nel tracciato che va dal Risorgimento a Caporetto, dall’omicidio di Matteotti all’8 settembre, dalla Resistenza alla Costituzione di questa nostra tribolata Repubblica. Un ruolo dinastico che, nonostante la retorica insignificante dei monumenti equestri sparsi per le piazze, poco o nulla è incisa nel vivo della coscienza collettiva.

Ma se dei vari Savoia più lontani nel tempo pochi ricordano qualcosa in più del bignami scolastico (Carlo Alberto? «Il Re Travicello»; Vittorio Emanuele II? «Andò a Teano da Garibaldi»; Umberto I? «Quello ammazzato dall’anarchico»), il piccolo «re soldato» Vittorio Emanuele III è l’unico della famiglia che susciti ancora un sentimento. Ma è di disprezzo, anche in chi della storia patria poco sa e poco si interessa ma intuisce quando un re è venuto meno alla sua unica funzione storicamente accettabile, quella di essere il simbolo dell’unità del popolo. Certo, la storiografia ora fa emergere un giudizio più articolato su quest’uomo introverso e solitario e sulle circostanze in cui si trovò, ma non potrà cancellare il carattere di inadeguatezza che segna Vittorio Emanuele come l’intera dinastia, dalle radici fino agli ultimi e disinvolti eredi di cui il referendum del 1946 ci ha risparmiato di diventar sudditi.

In ogni caso, dopo che il Parlamento ha abolito la Disposizione transitoria della Costituzione che impediva agli eredi maschi di Casa Savoia di mettere piede sul suolo patrio, era difficile negare il ritorno anche delle salme. Il Quirinale ha discretamente accolto una richiesta della famiglia ex reale avanzata sin dai tempi di Pertini e poi di Ciampi, e lo ha fatto, per usare le parole di Piero Grasso, «per un gesto di umana compassione». Se si ponesse la questione, anche l’incolpevole Umberto II potrebbe essere traslato da Altacomba in Savoia fino a Mondovì: per mettere la parola fine e non pensarci più. Quel che disturba però è che alcuni eredi Savoia pretenderebbero ora la sepoltura solenne al Pantheon del loro avo. Al Pantheon ci sono i Padri della Patria, quelli almeno che ci sono toccati in sorte. Ma un re che scappa non è un padre.

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