Potere, servizio
e l’ascesa renziana

Massimo Recalcati, dalle pagine di Repubblica, riapre il dibattito attorno a Renzi e, insieme, all’identità e alla crisi della sinistra. E lo fa mettendo in campo le categorie dello psicanalista. Già qualche mese fa, aveva accostato a Renzi l’immagine del «figlio giusto», osteggiato dai padri che non vorrebbero cedere il passo, determinando «il fallimento dell’eredità». Ora, su questa stessa scia, cerca una spiegazione per l’«odio» di cui, da sinistra, Renzi stesso sarebbe fatto oggetto, spiegandolo con la «difficoltà della vecchia sinistra di fare il lutto della sua fine storica», dinanzi al giovane segretario «colpevole di avere messo la sinistra di fronte al suo cadavere».

Con tutto il rispetto e la stima che si debbono all’uomo e allo studioso, l’operazione non convince affatto. Sorvolo sul fatto che trovo sempre un po’ grottesco il vittimismo del (o al servizio del) potere. Nel merito: non mi convince anzi tutto la lettura generazionale su cui Recalcati insiste per spiegare i dissidi interni al Pd dinanzi al ciclone Renzi.

Tutti i dati disponibili dicono tutt’altro e cioè che proprio le giovani generazioni hanno voltato le spalle a Renzi e diffidano del leader Pd, che esercita il suo appeal soprattutto sugli insiders (dal punto di vista professionale) e sui pensionati (dal punto di vista anagrafico). A me pare che i «vecchi» militanti abbiano fatto molta meno fatica ad accettare la leadership renziana di quanto non si voglia far credere. Con riferimento invece all’intervento più recente di Recalcati, non è innocente la premessa, che scivola via quasi fosse un dato oggettivo, circa l’odio che Renzi si sarebbe attirato. Qualificare come odio il dissenso a Renzi mi pare un modo, tutt’altro che neutrale, di (s)qualificare il pensiero critico, connotandolo come fenomeno meritevole di lettura psicanalitica, quasi fosse patologico, anziché sostenuto, magari, da qualche solida ragione.

Sarebbe facile l’obiezione che l’ascesa politica di Renzi si è largamente avvalsa della scorciatoia della denigrazione politica personale e di quella contrapposizione manichea tra vecchio e nuovo che tanto ha caratterizzato l’immaginario della Leopolda, sicché si potrebbe liquidare la faccenda con il detto: chi di spada ferisce…

Ma ci sono questioni più sostanziali. Ne indico due sole, tra le altre, che, secondo me, concorrono alla crisi della leadership renziana, da una prospettiva di sinistra, ma anche da una più complessiva. La prima: Renzi non ha, nonostante le premesse incoraggianti, fatto i conti e segnato una discontinuità rispetto alla questione del professionismo della politica, che tanta parte ha, a mio avviso, nella crisi di legittimazione della sinistra (non solo, invero, di quella Pd). Mi pare anzi che la stagione renziana sia coincisa con un rilancio, anche tra le giovani leve, di un’attitudine alla politica come professione, con i rischi connessi di una disponibilità al trasformismo e alla sudditanza verso il leader di turno. In tema di credibilità più complessiva, insisterei sulla questione cruciale e molto sottovalutata dell’insincerità della parola. Su questo piano, Renzi è stato a più riprese inchiodato, anche da inequivocabili riprese televisive, ai suoi disinvolti cambi di rotta e contraddizioni, da ultima (forse) la promessa dell’abbandono della politica dinanzi al fallimento, puntualmente registratosi, del referendum costituzionale. È fatale che una parola così spregiudicata e leggera non possa costruire affidabilità, non sia generativa di fiducia. Piuttosto, tale tratto a me pare un segno inconfondibile dell’uomo di potere, la cui azione non è orientata da un orizzonte valoriale, sia esso di sinistra o no, ma dall’ambizione di mantenere saldo il timone tra le proprie mani.

Vero è che per Max Weber, l’aspirazione al potere è pressoché inevitabile per il politico; e tuttavia, aggiungeva il grande sociologo, «il peccato contro lo spirito santo della sua professione ha inizio là dove questa aspirazione al potere diviene priva di causa e si trasforma in un oggetto di autoesaltazione puramente personale, invece di porsi esclusivamente al servizio della «causa». Vi sono infatti in ultima analisi soltanto due tipi di peccato mortale sul terreno della politica: l’assenza di una causa e - spesso, ma non sempre, si tratta della stessa cosa - la mancanza di responsabilità».

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