Poveri inegualitari
Sinistre in affanno

In Italia, la sinistra – quella a sinistra del Pd – è in fermento e cerca di riorganizzarsi. Anche altrove, in Europa, si riaffaccia una sinistra che vorrebbe essere più profondamente redistributiva ed egualitaria. E tuttavia non si fatica a cogliere una difficoltà a vincere una radicata diffidenza, molto diffusa anche tra i ceti più popolari che pure, astrattamente parlando, dovrebbero essere maggiormente sensibili a un programma orientato a ideali di equità sociale e di uguaglianza sostanziale.

Lo spazio per il consenso a sinistra sembra ridotto e, ancor più, di scarso appeal per le fasce più vulnerabili della popolazione. Il successo popolare goduto un tempo da Berlusconi e ora, ad esempio, da Trump sembrano confermare questa impressione. L’economista Maurizio Franzini ha parlato, a riguardo, di «poveri inegualitari», a indicare la diffusa accettazione di elevati livelli di diseguaglianza proprio tra i ceti più svantaggiati. Come si spiega questo apparente paradosso? Si possono individuare cause più contingenti e altre più profonde e complesse. Tra le prime, si può certo, anche in Italia, annoverare il diffuso senso di delusione per il tradimento perpetrato dalle élites politiche della sinistra, colpevoli, secondo molti, di una visione solo testimoniale dell’azione politica, aggravata dalla tendenza al professionismo della politica e, in certi casi, da una dose di narcisismo personale. Vero è che sono critiche rivolte a gran parte del ceto politico, ma a sinistra creano fatalmente maggior sconcerto.

Più in profondità, una forza politica che si proponga e prometta coraggiosi programmi di trasformazione sociale ed economica, orientata alla redistribuzione, paga a caro prezzo la diffusa sfiducia, non infondata, circa le possibilità effettive dello Stato e della sua azione politica di governare processi che avvengono su una scala ormai globalizzata e da cui dipendono la distribuzione della ricchezza e delle risorse. Per questo, l’antipolitica vira preferibilmente a destra, perché la sinistra ha strutturalmente più «bisogno» della credibilità dell’azione politica. E poi ancora: sta passando in maniera subdola ma consistente, anche tra i ceti popolari, la convinzione che a derubare i «nostri» poveri di risorse economiche e di opportunità siano gli immigrati, sul presupposto, evidentemente costruito in modo malizioso, che i mezzi e gli aiuti destinati agli immigrati siano proprio quelli che altrimenti andrebbero a soccorso dei nostri concittadini più fragili. In questo modo, com’è accaduto negli Usa con Trump, l’opposizione all’immigrazione e agli immigrati diviene paradossalmente il surrogato di una politica sociale inesistente e si mette in scena una guerra tra poveri che sospinge quelli «nostrani» tra le fila dei partiti conservatori o sovranisti.

Infine: è stata avanzata (dalla filosofa Valentina Pazé, allieva di Norberto Bobbio) una spiegazione ancora più complessa della diffidenza dei ceti più poveri verso la sinistra, che fa riferimento al concetto di subalternità. Secondo questa spiegazione, parte non irrilevante degli stessi ceti più svantaggiati non vorrebbe affatto una società più egualitaria, perché in fondo ha interiorizzato, fino a condividerla, la concezione del mondo dei ricchi. Il soggetto subalterno non è semplicemente tale perché è collocato in basso nella «gerarchia» economica, ma perché ha assorbito, fino ad approvarla, la concezione del mondo di chi sta – sempre economicamente – in alto, verso cui è attratto dalla trasmissione mediatica dei modelli culturali e a cui aspira. È un tema su cui aveva attirato l’attenzione tempestivamente Pasolini, che aveva messo in guardia profeticamente la sinistra dalla ineluttabile corrosione esercitata da un consumismo allora veicolato dalla televisione. Non saremmo più di fronte, cioè, agli sventurati muti, di cui parlava la Weil, cui la sofferenza toglie perfino la voce, oltre che la voglia di ribellarsi; ma a «sventurati» ai quali la divisione del mondo in ricchi e poveri appare in fondo giusta e rispetto a cui la speranza di riscatto non è affidata a un ideale di giustizia politica, ma a un sogno o forse a un’illusione di ascesa individuale.

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