Pubblico impiego
Welfare rovesciato

Nel settore pubblico vi è una miriade di «imboscati» che riescono a evitare le mansioni per le quali sono stati assunti o abusano di diritti sacrosanti grazie a certificazioni compiacenti o a carenze nei controlli. La notizia non sorprende: però indigna, perché segnala i mali atavici del nostro sistema pubblico. Rilevanti sono, in primo luogo, i danni indotti da tali storture: spreco di risorse, scarsa qualità dei servizi, inefficienza complessiva del sistema.

Per non parlare degli effetti che il lassismo diffuso, l’ irresponsabilità dei dipendenti infedeli, l’incapacità dei dirigenti dei settori nei quali si perpetuano tali sconcezze. Tutti elementi che forniscono un quadro avvilente del modo nel quale funzionano molte strutture pubbliche. Le generalizzazioni sono sempre indebite e, peraltro, controproducenti, perché tendono a mettere nello stesso calderone situazioni di intollerabile malcostume e casi di amministrazioni nelle quali si lavora con dedizione, spirito di sacrificio ed efficienza operativa. Ciò nondimeno, occorre andare alle cause dei guasti del sistema pubblico. Le riforme del sistema amministrativo, varate negli anni Novanta, hanno progressivamente smantellato i meccanismi di controllo tradizionali. L’ intento era, in linea teorica, condivisibile: sostituire il controllo formale sui singoli atti con criteri di valutazione della qualità dei «prodotti» delle strutture pubbliche. Di fatto, la sequela di leggi riguardanti l’ azione degli organi di controllo esterni (Corte dei conti) e di quelli interni alle amministrazioni non è riuscita in nessun modo ad assicurare la verifica della qualità dell’ azione amministrativa. Insieme all’ acqua sporca del formalismo si è gettato anche il bambino del controllo. Negli enti territoriali i nuovi sistemi di controllo, basati (teoricamente) sulla valutazione, si sono rivelati un vero colabrodo, lasciando spazio a una diffusa deresponsabilizzazione, accompagnata a vistosi fenomeni di corruttela.

Per arginare la degenerazione crescente si sono sperimentate, con risultati non confortanti, soluzioni spesso poco praticabili. Si pensi, ad esempio, al caso dell’ Anac, l’ Agenzia anticorruzione guidata da Raffaele Cantone. Pochi ricordano che l’ Anac nacque come costola della Civit, agenzia istituita per occuparsi della valutazione dei dirigenti pubblici, la quale tentò senza successo alcuno di promuovere meccanismi di controllo sull’ attività degli uffici e sulla loro efficienza. Quella vicenda rivela la distanza sovente incolmabile tra progetti di modernizzazione e loro realizzazione pratica. Vi è, però, un fattore di più antica data che riguarda l’ uso - da parte del ceto politico - dell’ amministrazione pubblica. Già negli anni Sessanta, ma più marcatamente nei due decenni successivi, l’ impiego pubblico è stata la grande idrovora della domanda di lavoro. In primo luogo nel Mezzogiorno. Su questo terreno si andò creando una spirale perversa tra pressione sociale e ricerca del consenso politico. L’ allargamento a dismisura - troppe volte senza una reale esigenza - delle fila dell’ impiego è il padre dei malanni del nostro sistema amministrativo. Tale scelta ha prodotto nel tempo una sorta di «welfare rovesciato», in ragione del quale i governi hanno gonfiato l’ impiego pubblico piuttosto che garantire servizi più efficienti e meno costosi. Al progressivo incancrenimento di questo meccanismo nefasto hanno contribuito pesantemente i sindacati del settore pubblico, schierati graniticamente nella difesa di privilegi sconcertanti e poco inclini ad accettare meccanismi meritocratici.

Come uscirne? Le soluzioni non sono semplici, poiché il groviglio di norme astruse, di prassi difficili da modificare, di mentalità consolidate, si è rivelato più forte di ogni tentativo di cambiamento. Con il risultato che, ancor oggi, dipendenti fraudolenti e irresponsabili riescono a farla franca. In barba alle leggi e alla faccia dei loro colleghi diligenti e onesti. Eppure è indispensabile non demordere. I controlli sono da ripristinare, cercando soluzioni intelligenti e praticabili. Per quanto riguarda il ruolo dei sindacati c’ è da sperare che i segnali di apertura dei vertici confederali verso posizioni non corporative si producano concreti risultati. Più arduo sarà sconfiggere le logiche che - legando le amministrazioni pubbliche al carro della cattiva politica - ne snaturano le funzioni e ne indeboliscono l’ azione. Sotto questo profilo soltanto una radicale svolta negli indirizzi politici potrà permettere un reale cambiamento.

© RIPRODUZIONE RISERVATA