Putin, James Bond
e il fumo di Londra

A James Bond, con i suoi metodi sbrigativi, sarebbe piaciuto. A Sherlock Holmes, abituato a radunare indizi in un quadro inoppugnabile, molto meno. Di sicuro il rapporto del magistrato inglese Sir Robert Owen non andrà giù al Cremlino, con quel «probabilmente», giuridicamente impalpabile ma politicamente pesantissimo, che appende al collo di Vladimir Putin l’accusa di essere il mandante dell’assassinio di Aleksander Litvinenko, spia russa passata agli inglesi e avvelenata nel 2006 a Londra con una dose di polonio.

I russi sono furibondi e hanno mobilitato il ministro degli Esteri Lavrov, che minaccia conseguenze nei rapporti con il Regno Unito. Gli inglesi fanno la faccia feroce e hanno convocato l’ambasciatore russo per rimproverargli scarsa collaborazione nelle indagini. Ma proprio il fatto che la rapida (un anno, tra il 2014 e il 2015) inchiesta del povero «coroner», cioè un magistrato ordinario, sia così carica di conseguenze politiche e lati oscuri, rende la miscela ancor più esplosiva.

Sir Owen si dice certo che Litvinenko sia stato assassinato da due altri ex agenti russi, Andrej Lugovij e Dmitrij Kovtun. Ma le certezze finiscono qui. Perché dai due a Putin la strada è lunga e il rapporto (per chi volesse leggerlo: https://www.litvinenkoinquiry.org/report) la percorre con passo più che esitante. In sostanza: il polonio, un metalloide radioattivo, è custodito nelle centrali nucleari; l’accesso a quei depositi è sotto il controllo dei servizi segreti, civili o militari; se le spie russe hanno fatto uscire il polonio, avevano l’autorizzazione del loro capo, all’epoca Nikolaj Patrushev; una mossa simile Patrushev non poteva farla senza il consenso di Putin. Che, per conseguenza, è «probabilmente» il mandante dell’assassinio di Litvinenko.

Domanda: perché Putin, signore e padrone della Russia, avrebbe dovuto preoccuparsi di un Litvinenko qualunque? Perché, sostiene il rapporto, la spia double face aveva scoperto certi rapporti di Putin, all’inizio degli anni ’90, con gruppi mafiosi che importavano l’oppio dall’Afghanistan per smerciarlo in Europa. Altra tesi acrobatica: in quel periodo Putin era già vice-sindaco di San Pietroburgo, responsabile delle relazioni economiche della città. Detto in breve: poteva rubare da colletto bianco, senza fare lo spacciatore. Qualunque tribunale farebbe a pezzi una causa così impostata. E infatti non ci sarà alcuna causa, alcun giudizio. L’inchiesta finisce qui. E questo perché l’accertamento della verità è bloccato non solo dall’ostacolo russo ma anche dall’omertà inglese: le spie di Sua Maestà, infatti, non dicono una sola parola per spiegare che cosa facesse per loro Litvinenko, quale fosse la sua importanza di spia, perché contasse tanto da «meritarsi» un attentato al polonio e non, per dire, un semplice e anonimo colpo di pistola.

Naturalmente non giova a Putin il passato di agente del Kgb, sia pure in posizioni di secondaria importanza. George Bush senior potè passare dalla Cia alla Casa Bianca senza sentirselo rinfacciare, anche se con lui presidente ci fu la fine dell’Urss e la prima Guerra del Golfo. A Putin, invece, viene imputato di tutto, dall’assassinio della giornalista Politkovskaja a quello dell’oppositore Boris Nemtzov, anche se queste due morti violente tutto hanno fatto tranne che il suo interesse politico.

Con queste accuse più o meno credibili, Putin paga in realtà due altre «colpe». La prima è aver riportato la Russia, nel bene e nel male, al centro della scena strategica mondiale. L’altra è dominare da leader un Paese dove ancora troppo spesso la legge non regna sovrana, i giornalisti cadono come mosche, gli avversari rischiano grosso, burocrazia e mafia imperversano. Una responsabilità, anche questa politica, che l’inquilino del Cremlino deve comunque prendersi.

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