Quanto il terrore
diventa quotidiano

Il nuovo attacco contro Londra e la sua gente, cioè quel popolo composito di autoctoni, immigrati, turisti e residenti provvisori per lavoro che ormai caratterizza tutte le metropoli, ci lascia sgomenti non solo per il numero dei morti (questa volta sette) ma perché sembra confermare e anzi drammatizzare tutta la difficoltà che incontriamo nell’opporci al terrorismo dei cosiddetti «lupi solitari». Avanziamo a grandi passi verso un futuro in cui il vicino di casa «diverso» (perché ha la barba, o parla arabo, o è immigrato da poco, o pratica un’altra fede o non ama i nostri costumi, tutte cose in realtà normali) sarà automaticamente anche «sospetto»? In cui dovremo imparare a gestire un certo tasso quotidiano di terrorismo?

Le azioni compiute a Londra (a fine marzo sul ponte di Westminster, ora sul London Bridge), a differenza di quella ancor più atroce perpetrata durante il concerto pop di Manchester da un kamikaze dotato di un sofisticato congegno esplosivo, sono marchiate da un insopportabile tasso di normalità. L’assassino di Westminster, Khalid Masood, era nato nel Regno Unito e vi era vissuto per tutti i suoi 52 anni. Nulla di lui da segnalare se non qualche denuncia e arresto per danni, lesioni e disturbo della quiete pubblica. Meno di tanti tifosi del calcio inglese, per dire. La biografia dei terroristi del London Bridge non è ancora nota ma per loro, e per i nostri timori, basta un particolare: avevano noleggiato il furgone usato per la strage solo poco tempo prima di entrare in azione, spendendo la miseria di 20 sterline. Tutto troppo facile, troppo banale. Quindi ancor più inquietante.

Eppure una strada c’è per opporsi a quest’insidia che pare strisciar fuori dai meandri delle città, un misto di miseria, fanatismo, disagio sociale e squilibrio mentale che pare una versione più crudele delle trame dei grandi romanzi popolari francesi dell’Ottocento. Per quanto si cerchi di essere politicamente corretti e di non cercare colpevoli un tanto al chilo, e quindi si esiti molto a parlare di «terrorismo islamico», ciò che sappiamo per certo è che l’odierno terrorismo è nella maggior parte dei casi ispirato dalle correnti più radicali dell’islam sunnita. C’è stato e c’è terrorismo anche nel mondo sciita, è chiaro. Ma oggi, e soprattutto in Europa, non c’è discussione su quale sia la minaccia prevalente: la prima.

I «lupi solitari» nascono, crescono e immaginano le proprie azioni in quel brodo primordiale di radicalismo salafita e wahabita che si diffonde soprattutto per due strade: la Rete virtuale di Internet e la rete invece assai concreta della predicazione radicale sostenuta dai quattrini delle petromonarchie del Golfo Persico. Per il primo aspetto, ci si preoccupa troppo delle cosiddette «fake news» (notizie false) e troppo poco dei canali di indottrinamento e reclutamento che viaggiano via computer e telefonino. Nell’agosto del 2016 Twitter ha annunciato di aver chiuso in due anni 360 mila account che incitavano all’odio jihadista. Un bel colpo, un segnale forte. Ma i grandi social network possono fare molto di più in questo campo, come ben sa chiunque si avventuri nella navigazione online. Certo, bisognerà bilanciare con attenzione la necessità di intervenire con l’esigenza di non compromettere le libertà fondamentali. Ma è davvero un problema, questo, in un mondo in cui viene dato per scontato che la Russia abbia influito sull’esito delle elezioni presidenziali Usa e in cui i servizi segreti americani possono spiarci anche attraverso il televisore?

Nel mondo reale, poi, dovremmo cominciare a valutare con più rigore quanto avviene negli ambienti pulsanti dell’immigrazione dai Paesi islamici. Anche qui: nessuna caccia alle streghe e libertà per tutti. Ma siamo sicuri di sapere bene chi siano i predicatori delle moschee? Siamo sicuri che lasciar costruire le moschee con soldi che arrivano dall’estero sia corretto e prudente? Se esiste una fascia della popolazione di culto islamico e priva di un luogo di preghiera, non dovrebbe essere lo Stato a provvedere, con tutte le cautele e i controlli del caso?

Sono questioni che le forze dell’ordine e dell’intelligence conoscono a fondo, e con cui si confrontano ogni giorno. Nessuna scoperta. Però sarebbe opportuno che tali questioni entrassero anche nella riflessione dei cittadini e nel dibattito pubblico, ancora troppo ancorato a luoghi comuni (lo scontro di civiltà, la democrazia nell’islam… ) di scarsa utilità pratica. Come Londra, purtroppo e per l’ennesima volta, ci dimostra.

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