Quegli eroi silenziosi
altro che Schettino

C’è come uno sgomento che assale, forse più grande per chi come noi è gente di terraferma, quando il mare inghiotte delle vite umane. Quando il naufragio, l’incendio a bordo sono terrore senza scampo e intorno è solo nebbia e tempesta. Eppure c’è mare e mare, e ogni tragedia ha il suo volto, il suo destino.

Forse anche la sua morale da insegnare. Ieri, attorno alle 15, la Guardia Costiera ha diffuso un messaggio via Twitter: «Norman Atlantic. Alle ore 14,50 il comandante Argilio Giacomazzi abbandona la nave». L’ultimo passeggero era stato evacuato, il conto dei morti ufficialmente è fermo a dieci, ma ci sono i molti dispersi da contabilizzare. Però in quel marinaresco «il comandante abbandona la nave», e nelle prime parole che lo stesso responsabile del traghetto finito alla deriva nell’Adriatico ha detto al telef ono a moglie e figlia, «Sto bene, state tranquilli, è finito tutto: tra poco torno a casa», ci sono una dignità, una padronanza di sé, un’abnegazione e il riflesso chiaro di un senso di responsabilità che sembrano, o forse sono, anche un messaggio nella bottiglia a tutti noi. E all’Italia che sempre più scompostamente balla sul Titanic.

Nonostante il nome, la Norman Atlantic è una nave italiana. Ed è italiano il suo comandante, si chiama Argilio Giacomazzi, ha 62 anni e vive alla Spezia. Di lui, la moglie Paola aveva subito detto: «Mio marito non lascia la nave». Perché subito la curiosità (maligna) di pubblico e quella di giornalisti era andata a bussare lì, a battere sul dente che ancora duole: Sarà mica un altro Capitan Schettino? Volente o nolente, colpevole o innocente, ravveduto o ancora spaccone, lo sventurato capitano che saltò dalla Costa Concordia mentre s’inclinava mortalmente sull’Isola del Giglio è divenuto un emblema.

Quella disavventura della marineria, ce lo ricordiamo bene, fu presa universalmente come la metafora della cialtroneria e della colpa dell’Italia: non fare mai fronte al proprio dovere, scantonare, scaricare il barile. E tradire l’onore, che è il peggio che un comandante possa mai fare, ed è quello che troppo stesso gli italiani fanno. E adesso, ecco l’immagine del riscatto, nel volto di questo italiano di sessant’anni, calvo, poco appariscente, che fa solo il suo dovere. Non danzando su una nave-festa danzante, ma guidando un umile traghetto (anche malmesso, per di più). Insomma c’è anche l’Italia che non molla, che sa di rischiare ogni giorno il suo lavoro, la vita dei suoi cari, mentre continua a remare controvento in mezzo al mare per nulla calmo di questi anni.

Intendiamoci, non è che d’un tratto torniamo a essere un popolo di santi, eroi e navigatori. Un camionista greco (ma anche una famosa soprano che avrebbe dovuto esibirsi in Italia), ha detto che altri uomini (chissà che lingua parlavano, in che Dio credevano) hanno usato le maniere forti per salire per primi sull’elicottero del soccorso e abbandonare il traghetto in fiamme: «Non hanno preso in considerazione le donne e i bambini». Domenica mattina, stesso mare e quasi stessa spiaggia – ma mare d’inverno, già di per sé una distesa grigia e senza allegria – un altro naufragio ha reclamato la sua quota di morte. Davanti al porto di Ravenna. Un mercantile turco, il Gokbel, e uno che batteva la bandiera del Belize, il Lady Aziza. Hanno fatto collisione.

E chissà se è un incidente sul lavoro, se è la tecnica che ha fatto cilecca, se è la distrazione di chi doveva controllare. E chissà in quale lingua e quale Dio avranno pregato i due marinai che sono morti subito, e i quattro che ancora non si trovano. Tra di loro, anche stavolta c’è il comandante, e il primo ufficiale. Nemmeno loro avevano lasciato la loro nave. Qualcosa deve volere pur dire.

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