Re Giorgio, 9 anni
sul fronte della crisi

Lo scrittore Raffaele La Capria, amico di una vita, lo ha definito un Re Lear: «A volte, nelle difficoltà profonde della politica italiana che si è trovato ad affrontare durante questi quasi nove anni, mi è sembrato il personaggio di una tragedia shakespeariana. Un Re Lear solitario». Per capire il carattere di Giorgio Napolitano si può ricorrere anche a Curzio Malaparte, nella Capri di fine guerra dove il celebre scrittore discuteva di Stendhal con Togliatti e colloquiava con il giovane Giorgio, figlio di un affermato penalista napoletano di scuola liberale, fresco di laurea in Legge e a quel tempo al primo lavoro come impiegato all’American Red Cross.

È in quello scorcio che l’autore di «Kaputt» regala una copia del libro con dedica al futuro presidente in cui si parla del suo non perdere la calma «neppure dinanzi all’Apocalisse». Calmo sì, ma anche meticoloso e determinato come ha dimostrato la sua permanenza al Quirinale nel segno dell’eccezionalità, e talvolta percorsa dalla solitudine: di matrice politica, non quella dell’opinione pubblica il cui consenso verso re Giorgio ha raggiunto punte record. La prima volta (2006) di un ex comunista a 15 anni dalla scomparsa del Pci.

La prima volta (21 aprile 2013) di una rielezione, sostenuta sino ai limiti delle capacità fisiche (90 anni il prossimo 29 giugno) e avvenuta in una situazione di caos istituzionale offrendo così una via d’uscita a un sistema politico paralizzato dopo la vittoria-non vittoria del Pd di Bersani, che in un colpo solo perde la guida del partito e palazzo Chigi.

Napolitano s’è dovuto misurare con una crescente instabilità del quadro politico e con una difficile congiuntura internazionale gravata pure sul Quirinale: crisi economica e sociale, dei debiti sovrani e dell’euro. Anche per questo la presidenza Napolitano è stata quella che più ha accentuato la missione europea del Quirinale. Con lui il ruolo del garante s’è ampliato lungo un percorso iniziato con la frattura fra Prima e Seconda Repubblica e assecondando anche la «malleabilità» della funzione presidenziale: nei momenti di debolezza del governo, aumentano gli spazi d’intervento del Quirinale, tant’è che si è parlato di presidenzialismo di fatto (l’illustre Giovanni Sartori lo ha definito «presidenzialismo parlamentare»).

Napolitano, al primo mandato, era stato eletto alla quarta votazione e con i soli voti del centrosinistra e sin dall’inizio aveva promesso che sarebbe stato il presidente di tutti. L’idea di un rapporto costruttivo fra maggioranza e opposizione, la forza della mediazione fra schieramenti che la pensano in modo diverso ha attraversato i nove anni di presidenza operando scelte difficili e attirandosi le critiche di destra e sinistra.

Re Giorgio ha governato le crisi dei governi Prodi e Berlusconi con una serie di punti critici. Il dramma di Eluana Englaro, quando il capo dello Stato non firma il decreto del governo che blocca l’attuazione della sentenza che ordinava la sospensione dell’alimentazione, e il discusso lodo Alfano promulgato dal Colle. Fino all’offensiva della sinistra giustizialista e grillina nel quadro dell’inchiesta Stato-mafia che porta gli inquirenti di Palermo a raccogliere la testimonianza del presidente al Quirinale.

Tocca sempre a Napolitano gestire il collasso del centrodestra, la condanna di Berlusconi, il passaggio cruciale – che a fine 2011 salva il Paese dal default – verso il governo dei tecnici di Monti, quindi l’esecutivo Letta e infine la stagione di Renzi. Con l’attuale premier c’è stata qualche difficoltà iniziale per poi stabilire un solido asse e stendere un’efficace rete di protezione. Questo per ricordare come re Giorgio, un professionista della politica dall’aplomb british, sia stato il lord protettore degli ultimi tre esecutivi: ciò che è avvenuto dalle dimissioni di Berlusconi reca la sua impronta. Il suo primo discorso di Capodanno era stato dedicato ai morti sul lavoro e l’ultimo è stato caratterizzato dalla triade unità-fiducia-doveri. Nei limiti delle sue prerogative costituzionali, ha contrastato l’antipolitica fino a bollarla quale «patologia eversiva». E ne ha ragione, perché Napolitano appartiene a quella generazione cresciuta fra la guerra e la ricostruzione che del primato della politica ha fatto una scelta di vita.

Uomo di partito e delle istituzioni. Di formazione crociana, incontra la cultura comunista – come ha scritto nella sua autobiografia «Dal Pci al socialismo europeo», Laterza – nell’ultimo anno di liceo a Padova, dove la famiglia era sfollata da Napoli. Si iscrive al Partito comunista nel 1945, si lega a Giorgio Amendola leader dei miglioristi (il gruppo più vicino alla socialdemocrazia europea) e inizia un percorso che lo vede deputato per 10 legislature dal ’53, presidente della Camera dal ’92 al ’94, ministro dell’Interno dal ’96 al ’98 nel governo Prodi, presidente della Commissione Affari costituzionali dell’Europarlamento dal ’99 al 2004.

Nel Pci è responsabile economico e poi delle relazioni internazionali. Nel ’78 va in America invitato da alcune università ed è una svolta: è il primo dirigente del Pci ad ottenere il via libera negli Usa. Di Berlinguer condivide sostanzialmente il compromesso storico con la Dc e soprattutto l’eurocomunismo, ma non il Berlinguer degli anni ’80, quello dell’«alternativa democratica». Napolitano e i miglioristi puntano infatti ad un’evoluzione socialdemocratica del partito e così va letta l’attenzione verso il Psi di Craxi.

Un leader, in sostanza, «tutto politico» e oggi percepito con affetto anche come personaggio nazionalpopolare in «connessione sentimentale» con gran parte degli italiani. Nei suoi saggi cita più volte Thomas Mann: «La politica racchiude in sé molta durezza, necessità, amoralità, molti calcoli di convenienza... ma non potrà mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura». Il lascito di Napolitano è l’impegno per ritrovare la nobiltà della politica.

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