Regionali, rese
e conti aperti

Il voto per la Regione Lombardia, nella combinazione dell’election day del 4 marzo, sarà più importante del solito, e non solo perché in ballo c’è un pezzo d’Europa economica, del territorio più popoloso e di quello che da sempre è un laboratorio di sperimentazione politica. Lo sarà perché le elezioni per il parlamento hanno un effetto trascinamento, assorbono e mischiano i livelli territoriali, dando una coloritura tutta politica anche alle urne regionali, specie a quelle di un crocevia come il Pirellone. Lo si è visto in questi giorni con l’uno-due a destra e a sinistra: il passo indietro di Roberto Maroni e la scelta del partito di Grasso di non sostenere il candidato di centrosinistra, Giorgio Gori.

Il «no» di Liberi e uguali al sindaco di Bergamo ha raffreddato qualche entusiasmo nel centrosinistra, tuttavia il Pd ritiene che la Regione resti contendibile dopo il forfait di Maroni. Nella prospettiva che se la può ancora giocare, cercando di rimontare attraverso la breccia apertasi in uno spazio finora chiuso dopo 25 anni di egemonia forzaleghista. Il rifiuto del sostegno a Gori era nell’aria e viene dal gruppo dirigente lombardo, in una terra dove è sempre esistita una sinistra dalla vocazione minoritaria, che fra la logica dello schieramento e quella del governare sceglie la prima. In questa decisione (sembra più subita che sostenuta da Grasso e soprattutto da Bersani) si ritrovano l’eco del richiamo della foresta e di chi è ostile alla formula del centrosinistra, ma soprattutto il riflesso condizionato di un antirenzismo schematico, senza vie di mezzo.

In realtà il sindaco di Bergamo ha maturato un profilo civico-amministrativo flessibile e trasversale tutto suo, come s’è visto nell’attivismo sull’accoglienza ai migranti e sull’autonomia del referendum in Lombardia. Il confronto nelle due sinistre è ancora tutto da giocare e sarà interessante osservare il comportamento degli elettori di Liberi e uguali, perché c’è già chi s’è smarcato appellandosi al voto disgiunto previsto per il Pirellone, cioè uno per la lista e uno diverso per il candidato presidente. Se in questa metà campo c’è il riproporsi di un già visto, di una malattia inguaribile, resa più contagiosa dalla scissione nel Pd, la vera novità viene da destra dove per un Salvini che gioca la partita della vita l’avversario questa volta è interno, fra le pareti di casa. La guerra fredda con Berlusconi avrà ancora i suoi alti e bassi, ma – se non altro per i vincoli della legge elettorale – al conflitto dovrà seguire una tregua, un accordo almeno ai minimi sindacali. Dietro lo schermo dei vaccini, della legge Fornero e di tutto l’armamentario che divide Salvini da Berlusconi, c’è la polpa della distribuzione dei collegi uninominali al Nord: cioè l’argenteria di famiglia. Il caso Maroni, che incide in modo traumatico sull’identità e sulla psicologia di una comunità fatta di sentimenti, s’è posto nel momento di massima espansione della Lega e di torsione sovranista che aspira a governare, sul modello Austria e Ungheria. Quello del governatore uscente, pur dando credito ai «motivi personali», è stato un passo a lato del perimetro salviniano e una mossa soprattutto contro «questa» Lega. Nell’intervista al «Foglio» ha accusato il suo successore alla guida dei lumbard di essere uno «stalinista», corredando il tutto con un dissenso politico che rinvia ai tempi del bossismo, quando la Lega era un’altra cosa. Un contrasto profondo, in sonno da tempo, esploso (pur con qualche medicazione) in un passaggio decisivo. Non sarà indolore, specie per il popolo leghista affezionato ai suoi leader, e che per il momento sta parcheggiato nell’ombra, aspettando in riva al fiume. Può darsi che abbia ragione chi ritiene che Maroni si collochi di fatto in quella «riserva» della Repubblica a disposizione per tempi più complicati. Per il momento c’è in campo una Lega che si ritrova con un problema irrisolto al suo interno: dopo la rovinosa caduta di Bossi, la frattura di Maroni, pur considerando che il partito è nelle mani dell’attuale leadership e che l’elettorato ha una sua consolidata fedeltà. È comunque l’indizio di un malessere, o qualcosa di più perché se ne va un pezzo di storia, che la mano ferma di Salvini fin qui riesce a coprire, ma che potrebbe riproporsi dopo il 4 marzo. Quando si faranno i conti.

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