Renzi pigliatutto
Dov’è la destra?

La relativa forza di Renzi è in parte debitrice della debolezza di una melanconica Forza Italia e, in estrema sintesi, della crisi di rappresentanza del centrodestra. Un buon avversario è necessario e utile. Eppure, mentre la casa brucia fa specie che Berlusconi si segnali quasi in esclusiva per la scelta vegetariana: amenità innocua, forse un marketing elettorale, ma pur sempre una cronaca minuta da un altro pianeta.

Con Renzi al centro di tutto si capisce la necessità del premier di parlare a quella che un tempo era la «maggioranza silenziosa»: per carattere e calcolo, ma anche per scarsa incidenza dell’universo berlusconiano. È presto per spartirsi le spoglie di questo universo, tuttavia nel terreno di caccia di un serbatoio sotto stress e confuso si affaccia una competizione fra il Pd e i 5 Stelle, dato che quasi il 50% dell’elettorato grillino (sondaggio pubblicato dal «Sole») si dispiega fra il centro e la destra. La strategia a tutto campo del capo del governo potrebbe rivelarsi costosa, ma per il momento funziona.

Il renzismo non ha più confini: dal lavoro alle tasse, dalla rivendicazione dell’autonomia nazionale alla voce grossa in Europa. Il riformismo e il populismo istituzionale del premier rappresentano una clausola di salvaguardia per gli orfani del berlusconismo vincente. Può fare anche di più, fra realismo e un tocco di spregiudicatezza, come s’è visto con la legge sulle unioni civili: entrare da sinistra con i grillini, inciampare e poi riprendersi per uscire a destra con la stampella di Verdini.

Il gioco politico inizia e finisce nel perimetro della maggioranza, dove sono confluiti un’ottantina di parlamentari dell’opposizione: quando serve c’è l’opposizione della sinistra Pd, quando è necessaria provvede Alfano e quando occorre ecco il soccorso trasformista degli ex azzurri. Andata e ritorno in famiglia, sia pure allargata. In tutto questo Forza Italia è ammutolita, predisposta allo stallo, coltiva una sorta di estraneità, senza un progetto politico, con categorie mentali inaridite, base sociale dispersa e con una silenziosa diaspora.

Si dirà, ed è vero, che la Lega con la ruspa è invece attivissima e che il giovanotto con la felpa c’è perché in tv è ospite fisso a reti unificate. Però la mutazione genetica della Lega da padana a filiale italiana della Le Pen, dopo i benefici iniziali, presenta il conto data l’evidente sproporzione fra la rappresentazione di Salvini, a rischio bolla mediatica, e la sostanza politica. Lo sfondamento oltre i tradizionali insediamenti non s’è compiuto: non è stata una gita fuori porta. Il balzo elettorale è avvenuto, ma non è stato tale da ribaltare la gerarchia nel centrodestra: non è più il tempo delle cene di Arcore, ma non è ancora l’ora dell’egemonia salviniana. A Milano, in vista delle amministrative, Salvini non ha toccato palla e ha dovuto ingoiare il rospo dell’alleanza con l’arcinemico Alfano. A Roma, dove gioca in trasferta, sta facendo saltare il banco trasformando la coalizione, già con un candidato debole, in un campo di battaglia peraltro in un feudo della destra. Nel frattempo deve reggere l’urto dell’inchiesta sulla Sanità in Lombardia che non è una puntura di spillo. L’offensiva contro i magistrati riedita le gloriose sconfitte dell’ex Cavaliere. Con Grillo non c’è partita.

Mentre bene o male gli avversari corrono, fanno e disfano, il centrodestra ripropone l’eterno ritorno dell’uguale: la ricostruzione di una vecchia logica spartitoria priva di innovazione nella classe dirigente e nella proposta politica. Qualche fuoco d’artificio leghista e poco altro.

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