Ripartire dai poveri
Il coraggio dei sindaci

«Siamo l’ultimo livello della politica, ma il più vicino alla terra» ha detto il sindaco di Pedrengo Gabriele Gabbiadini, uno degli ispiratori del protocollo per la povertà, sottoscritto già da venti primi cittadini bergamaschi. Una frase che è di per sé un manifesto. Lo stile è quello dell’umiltà, nel senso etimologico della parola: ripartire dal basso, dai livelli originari della rappresentanza politica, e quindi dalla terra, con tutto ciò che essa, storicamente, rappresenta (la vita in cascina, il senso di appartenenza alla comunità...).

L’ispiratore non poteva che essere Papa Francesco, il soggetto politico più visionario dell’ultimo decennio, che domenica 19 invita tutto il mondo a riflettere sulla povertà. Il punto di partenza è la vita delle comunità, i piccoli e grandi problemi che i nostri amministratori si trovano quotidianamente a fronteggiare: povertà, soprattutto. Materiale e immateriale. Problemi di lavoro, di alloggio, ma anche dipendenze dal gioco, dalle droghe, famiglie disgregate, liti di vicinato, convivenza tra culture diverse... Le parole utilizzate dai sindaci riecheggiano un’ingenuità di spirito solo apparente, in realtà sono un tentativo, cosciente e coraggioso, di riportare nel lessico della politica, logorato dalle spinte centrifughe del populismo da una parte e dei residui partitocratici dall’altra, termini come «solidarietà, senso della comunità, sostenibilità, equità, coinvolgimento, speranza, conoscenza del prossimo, ascolto, fiducia, lavoro, dignità». Senza voler proporre paragoni forzati, c’è in queste proposizioni lo stesso slancio generativo di Giorgio La Pira. Basta rileggere, per esempio, le lettere (anticipate da Avvenire, saranno presto ripubblicate in «Ponti di pace», a cura di monsignor Leonardo Sapienza, Editrice VivereIn) che il sindaco di Firenze scriveva al ministro della Difesa Giulio Andreotti sul disarmo nucleare negli anni Settanta. C’è in esse una libertà di pensiero e un’ampiezza di orizzonti che lasciano interdetto il lettore di oggi, assuefatto dalle censure e dalle autocensure dell’era della politica 2.0, dove tutto è piegato al consumo del qui e ora, con buona pace dei ragionamenti e delle idee. Per questo ben vengano cittadini che hanno ancora il coraggio di parlare di solidarietà, di dignità, di fiducia, di ascolto.

Vista da questa prospettiva, l’azione dei 20 sindaci (e speriamo che molti altri si aggiungano alla schiera) acquista una nuova ragion d’essere, diversa da quella degli ultimi anni, nei quali abbiamo assistito ai mantra del «ma c’è la crisi», «ma c’è il patto di stabilità», «ma abbiamo le mani legate»... difficoltà oggettive, certo, ma che, col passare del tempo, sono diventate spesso il cappello sotto il quale nascondere negligenze e inettitudini. Qui invece abbiamo uomini e donne che interpretano con coraggio le loro responsabilità di amministratori. Arrivano da esperienze politiche diverse, si sono fronteggiati e si fronteggeranno, probabilmente, durante le campagne elettorali, ma riconoscono - ancora - nel ruolo del sindaco, dell’amministratore pubblico in generale, un nucleo pedagogico imprescindibile. E nella figura dell’ultimo (sì, il povero, il prossimo del racconto evangelico, l’emarginato del nostro mondo laico) un soggetto fondamentale dell’azione politica. Ed è quest’ultimo il messaggio più radicale, che non poteva che partire da chi si misura quotidianamente con il sentire dei suoi concittadini, ma sa anche saggiarne il giudizio, oltre gli umori, oltre gli egoismi, proprio come il contadino saggia la salute della sua terra: ripartire dagli ultimi, fare degli ultimi il nostro metro di misura. Per dare un senso, una direzione, uno scopo, al nostro agire politico.

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