Se la politica rincorre
la giustizia mediatica

Una spaccatura nel governo, con due ministri importanti (Angelino Alfano, responsabile degli Esteri, e Andrea Orlando, della Giustizia) schierati su posizioni opposte. Le schermaglie via Facebook tra il presidente del Senato Pietro Grasso e il vice presidente della Camera Luigi Di Maio. E poi una ridda incessante di dichiarazioni da parte di altri leader politici.

Non si placa il caso di alcune organizzazioni non governative (ong) impegnate nel soccorso ai migranti nel Mediterraneo accusate di collusione con gli scafisti. Forse varrebbe la pena ritornare all’origine della vicenda per mettere un po’ di ordine all’incessante «dibattito». L’innesco sono le ripetute dichiarazioni del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, il 22 marzo scorso a un comitato parlamentare e poi a televisioni e giornali. Il magistrato sostiene di essere in possesso di informazioni secondo le quali alcune ong (in particolare una, con base a Malta) vengono avvisate dalla Libia dell’arrivo di migranti da recuperare in mare; sostiene poi di avere sospetti sui finanziamenti delle stesse organizzazioni e di pensare che «tra le finalità della criminalità libica potrebbe esserci anche la destabilizzazione della nostra economia». Ma ha ribadito di non avere prove giudiziarie, di procedere per ipotesi rispetto a un fenomeno che allo stato ha contorni e proporzioni da definire. Zuccaro non è un magistrato alle prime armi. Nelle vesti di presidente della Corte d’Assise di Caltanissetta, inflisse tra l’altro 24 ergastoli per la strage di Capaci nella quale morì il grande giudice Giovanni Falcone. Si è prestato alla ribalta mediatica quindi non per ingenuità, ma con una finalità precisa, che lui stesso ha esplicitato in un’intervista a «Repubblica»: «È giusto che un magistrato parli con gli atti giudiziari e naturalmente lo farò quando e se sarò in grado di formulare imputazioni nei confronti di singoli. Ma adesso, da magistrato, ho il preciso dovere di denunciare un gravissimo fenomeno criminale, per arginare il quale la politica deve intervenire tempestivamente. Se si dovessero aspettare i tempi lunghi di un’indagine che sarà complessa, sarebbe troppo tardi. E a ragione, tra qualche tempo, mi si potrebbe rimproverare: ma dov’eri tu mentre succedeva tutto questo? Accadde così anche vent’anni fa quando i colleghi che si occupavano di mafia denunciarono il fenomeno delle collusioni ben prima di avere le prove su singoli soggetti». La ribalta mediatica quindi come strumento per sollecitare la politica a intervenire. Zuccaro aveva già riferito i suoi sospetti al comitato parlamentare della Camera, ma evidentemente non gli è bastato. La ribalta mediatica ha innescato le reazioni dell’opinione pubblica e della politica: quella più barricadera sul nervo scoperto dell’immigrazione, si è scatenata in un crescendo di generalizzazioni, di forzature demagogiche e di processi sommari.

La vicenda rimarca per l’ennesima volta il rapporto non risolto fra politica e giustizia, nel cortocircuito mediatico che confonde i ruoli, in un’eterna campagna elettorale, con molte speculazioni e poche azioni efficaci. In attesa che si faccia chiarezza sulle possibili ombre dell’attività di soccorso in mare, bisognerebbe porsi qualche domanda sui ruoli istituzionali e sulle responsabilità degli attori in campo, con il senso del tragico che l’argomento richiederebbe (il cimitero Mediterraneo, dove solo da gennaio sono morte altre mille persone).

Proprio Falcone ci ricordava che «per fare un processo ci vuole altro che sospetti e bisogna distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie». Ci ammoniva poi da un rischio che riguarda tutti, anche l’opinione pubblica, tanto più in questo tempo inacidito: «La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità: la cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo». Cioè della caccia alle streghe, dei teoremi che ci allontanano dai fatti e dalla giustizia.

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