Se l’Italia stringe
i tempi sulla Libia

Una volta tanto, ieri le aule di Montecitorio e di Palazzo Madama non erano desolatamente deserte durante una discussione di politica estera: evidentemente anche i deputati e i senatori, almeno una parte di loro, hanno capito che l’emergenza libica di cui riferiva di prima mattina il ministro Paolo Gentiloni non è una questione da prendere sottogamba.

La Libia è davanti a noi, la situazione in quel Paese è ormai fuori controllo, gli islamisti la vogliono conquistare e, secondo l’ambasciatore egiziano a Londra, attraverso il canale libico sono intenzionati a portare il caos nel Sud dell’Europa, cioè principalmente in Italia: l’infiltrazione di terroristi tra quei poveracci che quotidianamente cercano di sbarcare sulle nostre coste è un rischio - finora irragionevolmente negato - che viene considerato reale.

Che la situazione sia grave, pericolosa e preoccupante soprattutto per noi Gentiloni lo ha detto senza troppi giri di parole: «Bisogna muoversi o sarà troppo tardi». Al nostro ministro degli Esteri - e alla sua collega della Difesa - è stato rimproverato di aver rilasciato nei giorni scorsi delle dichiarazioni avventate con cui il governo sembrava precipitarsi verso l’opzione militare di un intervento internazionale capeggiato da noi.

Ci ha pensato Renzi nei giorni scorsi a correggere qualunque equivoco, e infatti ieri Gentiloni ha insistito soprattutto sulla strada diplomatica in ambito Onu da percorrere per tamponare la ferita purulenta della Libia. In questo ambito, il capo della Farnesina ha elencato le cose che noi possiamo fare: ma in quell’elenco non è previsto l’uso delle armi. Almeno per ora, almeno fino a quando le Nazioni Unite, l’Europa, gli americani decideranno cosa si debba fare. Purché decidano: «Il tempo a nostra disposizione non è infinito».

Gentiloni ha chiesto al Parlamento di mostrare concordia in questa emergenza. Quale è stata la risposta? Nella maggioranza non si sono avvertite serie differenze o dissonanze (come invece eravamo abituati a registrare, soprattutto in passato nelle coalizioni di centrosinistra). La via diplomatica mette tutti d’accordo ma quella più interventista non dovrebbe trovare dissensi se non in una frangia del Pd, quella più vicina a Sel. A sinistra naturalmente, il no a qualunque ipotesi di intervento militare italiano è considerato (come al solito) un principio inderogabile. Su questa posizione si ritrovano il partito di Vendola e quello di Grillo.

Alessandro di Battista ha rimproverato alla «Casta» di aver concorso alla deposizione di Gheddafi - che pure un tempo veniva considerato un pericoloso dittatore anche un po’ pazzo - per ordine di francesi e americani. Che quell’operazione sia stata segnata da errori grossolani è chiaro a tutti - lo stesso Napolitano ieri intervenendo in aula lo ha riconosciuto - e sarebbe interessante andare a ripercorrere le tappe di un intervento internazionale particolarmente controverso, soprattutto se guardato dal nostro punto di vista. Ma non è parimenti chiaro quale opzione indichino i grillini se non quella di un rafforzamento della sicurezza interna.

Forza Italia, il partito più «gheddafiano», se vogliamo, rivendica la realpolitik di Berlusconi e dei suoi governi ma non fa mancare - sia pure tra molte critiche - la propria solidarietà al governo, convenendo sulla necessità di esplorare ogni strada prima di muovere i jet militari. Quello che da ultimo sembra soprattutto preoccupare la Lega è il flusso migratorio che sta visibilmente aumentando: al di là di qualche tono fuori misura dei leghisti, è pur vero che anche Gentiloni ha ricordato che una superpotenza economica come l’Europa non può pensare di cavarsela con i cinquanta milioni stanziati per finanziare l’operazione Triton e sperare che passi la nottata.

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