Se siamo diventati
più utenti che cittadini

Questa volta Davide Casaleggio, il patron della cassaforte web dei 5 Stelle, ha sbagliato i tempi. Ha affidato al «Washington Post» il suo manifesto per una «nuova democrazia» nei giorni della vicenda che ha coinvolto Facebook. Per Casaleggio «la democrazia diretta, resa possibile dalla rete, ha dato una nuova centralità del cittadino nella società» e «la democrazia rappresentativa, quella per delega, sta perdendo via via significato, e ciò è possibile grazie alla rete». In sostanza celebra un concetto finito sul banco degli imputati, una specie di caduta degli dei, dopo che la società di consulenza Cambridge Analytica è stata presa con le mani nella marmellata per aver usato dati sensibili da Facebook manipolandoli a fini politici.

Scricchiola il mito della neutralità della rete, dell’«uno vale uno», dell’ugualitarismo libertario senza più gerarchia e mediazione. Più che la centralità del cittadino, c’è la manina di qualche burattinaio su una platea di sudditi.

La vicenda Facebook, il colosso che gestisce le informazioni degli utenti, ha implicazioni planetarie di varia natura. In ballo, al primo posto, c’è la libertà individuale. Paradosso vuole che tutto succeda nell’era della privacy, ma lo scandalo è pur sempre coerente con il timbro del nostro tempo: postverità, fake news, fra Brexit e Russiagate. Prima c’è stato il capitolo Amazon che ha sollevato il problema della tutela del lavoro e della dignità dei lavoratori: ricordate i braccialetti per aumentare la produttività dei dipendenti e controllarne i movimenti? Ora l’affare partito da Londra con la vendemmia dei profili individuali che inaugura una nuova stagione della privacy: quella della rilevanza politica dei dati personali e dell’urgenza di una loro protezione, alla vigilia di una nuova normativa italiana per adeguarla al Regolamento Ue che a fine maggio cambierà le regole del gioco. L’utilizzo dei dati digitali è così pervasivo da aver generato un nuovo ecosistema, rischiando però di alterare il rapporto fra potere e democrazia, con quest’ultima che già giunge indebolita all’appuntamento con la rivoluzione digitale. Distorsioni innescate dalla marcia inarrestabile della tecnologia digitale, sospettate di aver inquinato il voto in Inghilterra, America e Francia. «Stiamo toccando con mano – dice il magistrato Giovanni Buttarelli, garante europeo della protezione dati – l’alterazione dei concetti di territorio, sovranità, giurisdizione e democrazia». I padroni dei bit potrebbero così drogare direttamente i contenuti dell’informazione, creando forme surrettizie di interferenze nella libera determinazione delle opinioni nel villaggio globale.

I passaggi per addomesticare la sempre fragile verità sono due e lo si è colto bene nel meccanismo di Cambridge Analytica, al cui stratega è stata carpita una frase di questo genere: «Sembra spaventoso dirlo, ma ci sono cose che non hanno necessariamente bisogno di essere vere: l’importante è che la gente ci creda». Dunque, il punto d’inizio è il rilascio volontario dei dati da parte di alcune migliaia di utenti che hanno utilizzato un’applicazione per partecipare a test della personalità on line. Con Facebook «esternalizziamo» la nostra memoria, liberandola dall’intimità e consegnando la scatola nera della nostra vita. Il problema è sorto con la seconda fase: le informazioni raccolte in modo legittimo sono state utilizzate per creare messaggi personalizzati con l’obiettivo di orientare le scelte politiche degli utenti. La vendita della privacy e il saccheggio delle informazioni impongono un modello culturale che tende alla conquista delle coscienze. Il lato oscuro dell’amichevole parola d’ordine della rete, «condividere», rivela la minaccia del dispotismo soft delle brigate cibernetiche: siamo più utenti che cittadini.

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