Se solo le immagini
generano reazioni

Nei sette anni di guerra la Siria è stata devastata nella carne (almeno 400 mila morti) e nei luoghi (metà della popolazione ha perso la casa: ci sono 6 milioni di sfollati interni e 5 milioni di emigrati; il 50% dei bambini non può più andare a scuola). Eppure la reazione della comunità internazionale, invischiata nel conflitto con i propri interessi, di fronte a questa immane carneficina è stata blanda. Con alcune eccezioni, generate da immagini che travalicavano il livello di sopportabilità del dolore e dell’indignazione: nel caso di attacchi che hanno provocato vittime soprattutto fra i bambini.

Nel febbraio scorso missili americani colpirono Damasco dopo un attacco con gas nervino perpetrato dall’esercito di Assad (secondo la versione ufficiale Usa) sul villaggio di al-Shafaah, dal quale giunsero foto e filmati di minorenni morti o soccorsi con le maschere d’ossigeno. Una vicenda fotocopia è quella della scorsa settimana: le immagini di piccole vittime dello stesso gas, questa volta a Duma, ha generato la medesima reazione indignata dell’opinione pubblica e indotto gli Usa, appoggiati questa volta da Francia e Gran Bretagna, a lanciare una selva di missili sul territorio siriano. Non si tratta di interventi risolutivi del conflitto, perché in quel teatro di guerra (per procura) si incrociano interessi inconciliabili (allo stato dei fatti) di potenze regionali e mondiali, dall’Iran a Israele, dalla Russia agli Stati Uniti, dall’Arabia Saudita alla Turchia al Qatar. L’uso di armi chimiche è la sola linea rossa invalicabile: per il resto si può morire quotidianamente tramite altre armi, nell’indifferenza delle potenze impegnate a spartirsi il Paese e ad acquisire la propria area di dominio.

Ma non è questa evidenza che intendiamo approfondire. «Occhio non vede, cuore non duole» è un vecchio proverbio che ci viene in aiuto per approfondire un aspetto esasperato delle nostre società: la prevalenza assoluta dell’immagine su altri linguaggi. Oggi scuote molto di più una fotografia che un reportage ben scritto dalle zone del conflitto. Soprattutto se la foto ritrae il dolore innocente di un bambino, che ci arriva addosso con la forza di un volto impietrito dalla sofferenza. Se non addirittura dalla morte: come nel caso di Aylan, il bimbo siriano ritratto senza vita su una spiaggia turca. Quell’immagine ebbe la potenza di smuovere la pubblica opinione e quindi la comunità internazionale, che diede segni di vita per un cambiamento della gestione dell’immigrazione diretta verso l’Europa. Quei segni però si spensero in un paio di mesi: erano il fruttto di una reazione emotiva, tantopiù forte perché il soggetto ritratto era un bambino. Ma le emozioni non hanno né la durata né la forza per portare a un vero cambiamento delle persone e delle azioni, soprattutto di chi ha responsabilità affinché quelle tragedie non accadano «mai più», come si dice un po’ retoricamente in queste tragiche circostanze. E invece poi riaccadono.

Le immagini di adulti segnati dal dolore e dalle ferite dei conflitti non generano invece la stessa reazione emotiva. Perché c’è qualcosa di incongruo nel volto sofferente di una piccola vittima della guerra, nell’età in cui lo svago dovrebbe essere tra le occupazioni principali, non il coprifuoco e il terrore di bombe e cecchini. Ma la perdita di una vita adulta è altrettanto grave perché si intreccia con la vita dei bambini: in Siria due bimbi su tre hanno perso un familiare, molti sono orfani di padre o di madre, o di entrambi. Le immagini di adulti vittime non provocano reazioni emotive seppure siano il segno di un lutto inconsolabile per tanti piccoli.

Anche l’assedio di Sarajevo, durato quasi quattro anni (12 mila morti, 1.600 erano bambini) fu tollerato a lungo dalla comunità internazionale, fino a quando le immagini della strage al mercato al coperto della capitale e degli orrori di Srebrenica non generarono la reazione che dopo alcuni mesi pose fine al conflitto. Ci auguriamo che accada lo stesso in Siria: sarebbe ora. Mentre ci sono guerre (dalla Somalia al Congo al Sud Sudan) delle quali non abbiamo nemmeno un’immagine. Non esistono.

© RIPRODUZIONE RISERVATA