Si soffoca, davvero
Solo colpa del caldo?

Si soffoca, fa caldo, troppo caldo. Ma si soffoca davvero? Bisogna riconoscere che certamente fa caldo, che l’umidità aumenta la percezione del caldo, che l’anticiclone porta aria africana. Tutto vero. Ma è proprio così strano? L’altra sera, in un telegiornale, di fronte alla ennesima intervista sul gran caldo, una signora ha risposto in maniera intelligentemente banale: «È estate, è giusto che faccia caldo. Sennò che estate sarebbe?». Bisogna dire che il tema dominante di questi giorni, ma forse di tutto il parlare che si fa dei fenomeni atmosferici, è il disagio che il meteo crea sugli esseri umani.

Come nelle cronache, fa notizia la cattiva notizia. Si sa che tutti parlano di un marito che uccide la moglie. Nessuno, invece, parla di un marito che, dopo oltre sessant’anni di matrimonio, dice: «Io sono ancora innamorato di mia moglie» (me lo ha detto un abitante del mio quartiere, qualche giorno fa). Quindi si parla del tempo estremo, dei disastri provocati da esondazioni, cicloni e temporali. Non si sa invece che cosa dire di una tranquilla e serena primavera e neppure di una normale, tiepida estate.

Non è strano neppure notare che il gran parlare fa sembrare il cattivo tempo ancora più cattivo. Sia perché del cattivo tempo si dice tutto, sia perché se ne parla ovunque. Il tifone che capita nelle Filippine è come se fosse avvenuto fuori di casa, perché le notizie, le immagini, per molti giorni ne parlano, lo raccontano, lo rappresentano.

Diciamolo in altri termini: il mondo esterno ci viene filtrato dalla parola e, più in generale, dall’informazione. Non è una gran scoperta, ma vale la pena ricordarla in questi giorni di caldo e di notizie sul caldo: in un certo senso non si parla di un fatto perché è avvenuto, ma avviene perché se ne parla. È una battuta, certo, ma, come tutte le battute dice, esasperandola, una verità. Da come se ne parla, un fatto avviene diversamente. La nostra cultura è ormai, da molto tempo, una cultura della parola, dell’immagine, dell’informazione, la cultura di internet e dei suoi miliardi di informazioni.

Così è oggi, ma la cosa viene da lontano, fa parte di una consolidata cultura. Così consolidata che non ci si bada più. Mi viene in mente una vignetta famosa, se non ricordo male del New York Times, al tempo dello sbarco sulla luna. Un immenso grattacielo, in tutti gli appartamenti si vede una tv accesa con la luna sullo schermo. E, sopra il tetto, la luna, quella vera, in cielo. Tutti guardano la tv e nessuno guarda il cielo. Era così già allora. Figurarsi oggi. Valeva, allora, per lo sbarco sulla luna, vale oggi per il temporale di turno o per la canicola attesa.

Questo stato di cose fa nascere, per quanto riguarda il mondo esterno, due atteggiamenti che tornano spesso: di nostalgia verso il passato, soprattutto quello che non è mai esistito, e di ansia verso il futuro, anche di quello che forse non capiterà mai. Il paradiso terrestre, così come ci è raccontato nel libro della Genesi, è finito subito dopo essere cominciato. Adamo ed Eva hanno fatto appena in tempo a metterci piede che sono stati cacciati fuori subito. Ora, il paradiso terrestre è il mondo senza sbalzi, contiguo al nostro corpo, accogliente: un’eterna primavera. Di fronte al gran caldo di queste estati si sogna un tempo e un luogo diverso. Il piccolo inferno fa sognare il paradiso terrestre perduto.

Insieme, però, aumenta l’ansia per il futuro. Più il mondo esterno diventa nemico, più si teme che lo possa diventare ancora di più in futuro. Un temporale avvenuto oggi potrebbe ripetersi tra qualche giorno. Si vive male nel mondo che ci sta attorno e ci si trova male nel tempo in cui ci è dato vivere. La felicità sta sempre altrove, insomma: non è qui e non è oggi.

Così ci tocca constatare che la mestizia dei tempi in cui viviamo viene non solo dalla politica e dall’economia e dal terrorismo ma anche dal solleone che ci brucia e dalle nubi che ci scaricano addosso i loro rabbiosi rovesci di pioggia.

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