Sondaggi e balletti
sull’Italicum

Con la legge elettorale non si mangia, eppure in un’Italia messa a stretta dieta dalla crisi la legge elettorale è tornata prepotentemente a occupare il primo posto dell’agenda politica. È la solita casta – si dirà – che si preoccupa, innanzitutto e soprattutto, di tenersi strette le sue poltrone, con una fazione impegnata a sottrarne una quota alla fazione avversaria per allargare e consolidare il suo potere. Riemerge per questa via il noto scontento nutrito dagli italiani nei confronti della politica, accusata di vivere in un altro pianeta, di essere incurante delle attese nutrite dai cittadini e quindi bisognosa di venir sostituita dalla «buona politica».

Come si vede, siamo di fronte al cane che si morde la coda. La politica va riformata, ma come si può senza metter mano alla legge elettorale? Senza cambiare il modo di selezionare il ceto politico, senza snellire le procedure istituzionali, senza rendere più trasparenti le responsabilità di chi ci governa?

Non è vero che gli italiani non si interessino al problema. In passato, anzi (referendum abrogativo della preferenza multipla del 1991 e referendum sulla proporzionale del 1993) sono corsi in massa alle urne per esprimere il loro voto e assestare un duro colpo ad un sistema arrugginito. Il clima di perplessità che si respira oggi nell’opinione pubblica non verte tanto sull’opportunità o meno di riformare la legge elettorale (imprescindibile dopo la bocciatura del Porcellum per «grave alterazione della rappresentanza» da parte della Corte costituzionale) ma sul sospetto che si giochi una partita sporca, condizionata da calcoli opportunistici che hanno poco a che fare con gli interessi del Paese.

Non ha contribuito, d’altronde, a rafforzare la credibilità dei partiti in materia di legge elettorale il balletto andato in scena in questi anni, quando abbiamo assistito a vere acrobazie e contorsioni di quasi tutte le forze politiche: prima favorevoli poi contrarie al maggioritario, un giorno fautrici del premierato, un altro del semipresidenzialismo, un altro ancora di un esecutivo collegiale, per finire con lo sfornare una riforma pasticciata, confezionata in puro spirito di compromesso. Non possono del resto non suscitare oggi più di un sospetto le nuove giravolte che si susseguono sull’Italicum. Voluto fortissimamente da Renzi in nome della governabilità, impossibile con maggioranze raccogliticce o peggio con ammucchiate, l’Italicum viene all’improvviso offerto di fatto alle modifiche dei critici (anche se ufficialmente sempre difeso come «legge ottima») per il timore del leader dem di fare le spese, dopo la scivolata delle elezioni amministrative, del ritrovato fronte comune delle opposizioni al prossimo referendum sulle riforme costituzionali. Contrastato fermamente al grido di «fermiamo il dittatore» da tutte le minoranze, convinte che la legge imposta a suon di voti di fiducia dal giovane leader fosse il grimaldello per impadronirsi dello scettro, oggi riceve lo stop a qualsiasi modifica dalla più influente di queste, il M5S. I Cinquestelle si sentono evidentemente ringalluzziti da sondaggi che li indicano come il primo partito, perciò candidati a beneficiare alle prossime elezioni del grosso premio di maggioranza assegnato dalla legge in vigore.

Qualità o meno dell’Italicum, giustezza o meno delle modifiche proposte, il sospetto che i partiti guardino soprattutto al proprio tornaconto nel decidere il loro orientamento non aiuta a risollevare la loro credibilità dai livelli piuttosto bassi di oggi.

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