Stavolta la Consulta
non affonda i conti

A un passo dal default. Non la Grecia, ma l’Italia in un pomeriggio di sole e vento mentre i ragazzi si impegnano negli esami di maturità, le mamme sono partite per il mare e Renzi continua a ripetere che la convalescenza del Paese è finita. Eppure la grande ombra ci ha sfiorato, perché la Corte Costituzionale ha stabilito che il blocco degli stipendi del pubblico impiego (fermi da sei anni) è illegittimo. Un provvedimento in vigore da quattro governi diventa improvvisamente illegale, esattamente come quello sull’adeguamento delle pensioni che un mese fa aveva costretto il ministero dell’Economia a raffazzonare una legge per evitare un buco di 15 miliardi.

Questa volta il danno per i conti sarebbe stato anche più grande, incommensurabilmente più grande: 35 miliardi. E gli effetti tutti da immaginare nella loro drammaticità: Renzi col mento in terra, conti fuori controllo, Europa in fibrillazione, Paese in ginocchio come se dal 2011 ad oggi i sacrifici degli italiani fossero stati del tutto insignificanti. E sindrome greca alle porte. La legge è legge e i custodi della Costituzione più di una volta hanno sottolineato - prima di emettere una sentenza con effetti finanziari - che «il pareggio di bilancio non è un problema nostro». A differenza della vicenda pensioni, questa volta la Consulta ha però compreso che un contesto esiste sempre e, tranne che nelle aule di giurisprudenza, è importante tenerne conto. Così alla sentenza sull’illegittimità è stata aggiunta la non retroattività. Vale a dire, i giudici non hanno lasciato via libera ai milioni di dipendenti pubblici, pronti a bussare allo Stato per chiedere l’adeguamento. Quindi, congelamento illegittimo, ma richiesta di rimborso inaccettabile. Una disposizione decisiva che consente a Padoan di risparmiare 35 milioni. O meglio, di non disinvestirli dalla loro destinazione naturale di bilancio.

Disinnescati gli effetti economicamente più devastanti, ne rimane uno - non dominante ma neppure marginale - a lasciare l’amaro in bocca: la sensazione che i dipendenti privati siano cittadini di serie B. Già, perchè il pubblico impiego in questi anni non ha subìto ristrutturazioni nè licenziamenti, non è stato investito dallo tsunami della cassa integrazione e della solidarietà, non ha trovato l’azienda fallita, anche se tutta la negatività dei conti italiani dipende (ricordiamocelo) dallo sfascio dell’azienda Italia.

Nonostante questo, mentre i dipendenti privati perdevano soldi, bonus e posti di lavoro, il pubblico impiego è rimasto relativamente al calduccio con la busta paga intatta. Secondo uno studio della Cgia di Mestre, di solito infallibile, gli statali guadagnano duemila euro in più all’anno dei privati, con un lordo medio di 34.286 euro contro 32.315 euro. Sapere che i contratti pubblici non possono più stare fermi mentre quelli privati arretrano non è una buona notizia per quei milioni di lavoratori che - pur non essendo stati assunti dallo Stato - pagano le tasse fino all’ultimo centesimo come gli altri.

Per riequilibrare un pizzico la faccenda basterebbe che il pubblico impiego italiano salvato nel portafoglio dalla Consulta si decidesse ad adeguarsi a una regola con cui i dipendenti privati fanno i conti da anni. La regola numero uno per chi eroga un servizio: poter essere valutato sul merito e non sull’anzianità.

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