Stragi di migranti
Se vince il cinismo

La vita delle migliaia di bambini annegati nel Mediterraneo negli ultimi vent’anni nel vano tentativo di raggiungere l’Europa, ha lo stesso valore di quella dei piccoli uccisi dai gas in Siria la scorsa settimana, nell’attacco che ha suscitato sacrosanto sdegno? Evidentemente sì. Ma nell’epoca delle immagini, a fare la differenza è anche ciò che vediamo: le vittime appartenenti alla prima categoria sono per lo più ignote alla narrazione degli obiettivi di fotografi e cameramen, inghiottite nel buio dei fondali marini e dell’assuefazione ai bollettini delle stragi nel Mare Nostrum.

La domanda non intende suscitare sensi di colpa che semmai dovrebbero appartenere ai responsabili di questa ecatombe alle soglie dell’Europa, dai trafficanti che lucrano sul desiderio di emigrare ai responsabili degli Stati e delle organizzazioni internazionali che non esercitano il loro potere per dare risposte finalmente efficaci a questa immensa tragedia. Responsabilità che sono note, analizzate e denunciate da anni.

Dal 1988 lungo le frontiere del Vecchio continente sono morte almeno 27.382 persone (si tratta solo dei decessi accertabili). Il numero non è aggiornato con i 97 «dispersi» del naufragio di giovedì scorso al largo della Libia, che porta già a 603 la conta degli annegati nel 2017. Naufragio che non ha avuto la dignità di un richiamo sulle prime pagine dei quotidiani nazionali, con l’esclusione di «Avvenire» («Calvario d’acqua») e dell’Osservatore Romano («Mare Nostrum sepolcro di migranti»), allacciando nei titoli la cronaca alla Pasqua . Quest’assenza dalla ribalta dei media è la conferma (ma non ne avevamo bisogno) di come ormai le tragedie nel Mediterraneo siano considerate nel senso comune una sorta di «danno collaterale», di tributo marginale a quel fenomeno, l’immigrazione, che inquieta le opinioni pubbliche europee. Si rischia perfino di passare per patetici (ne siamo consapevoli) nel rimarcare con un editoriale l’ennesima ecatombe, idealisti e buonisti che non si arrendono alla realtà con quella dose di cinismo necessaria per vivere in tempi caotici e violenti nelle azioni e nelle parole. Ma la cupa rassegnazione e l’indifferenza per questi morti («se la sono cercata», è l’alto e profondo pensiero che ci tocca spesso ascoltare a commento delle stragi) appartengono ai tarli che erodono la nostra civiltà e quindi la politica che ne è l’espressione. Sappiamo che non esistono risposte facili e definitivamente risolutive all’incombenza delle migrazioni - e chi vende ricette a buon mercato all’opinione pubblica è un millantatore in cerca di facili consensi - e che l’Italia in sostanziale solitudine si sta muovendo non solo salvando migliaia di vite nel Mediterraneo ma attivando la collaborazione di Paesi europei e africani, nella consapevolezza che è illusorio pretendere di governare con le sole risposte nazionali un fenomeno globale. Sappiamo anche che continuare ad associare l’immigrazione unicamente alla sicurezza e al terrorismo, come accade nei talk-show e nelle tribune politiche, ha un prezzo: perdere di vista la pluralità di un fenomeno portatore di nuova umanità, pur nelle fatiche che comporta ogni confronto con la diversità culturale e religiosa.

La Chiesa cattolica viene spesso attaccata per le sue posizioni sull’immigrazione, non solo in Italia (lo ha fatto in queste ore la francese Marine Le Pen, candidata del Fronte nazionale all’Eliseo, in un’intervista al quotidiano d’ispirazione cattolica «La Croix»), fino alla vulgata di essere un fattore attrattivo per chi emigra verso l’Europa. La virtù teologale della carità in questa narrazione è ridotta spesso a buonismo e le opere d’accoglienza che permettono di contenere i rischi dell’abbandono dei migranti alla strada sarebbero uno strumento d’affarismo. Eppure il presunto potere d’influenza ecclesiale non ha impedito, com’è giusto che sia in uno Stato laico, ai nostri governi di intraprendere iniziative legislative discutibili come l’inefficace (lo dicono i numeri) introduzione del reato di immigrazione clandestina o l’abolizione con un tratto di penna nel recentissimo decreto Minniti del ricorso in Appello per i richiedenti asilo, uno stratagemma minimalista per accorciare i tempi dell’iter della domanda ma che introduce una giustizia diseguale derogando alle garanzie processuali comuni.

Ma a ciascuno il suo. È nella natura del cristianesimo generare scandalo rispetto al senso comune, oggi come duemila anni fa. Una diversità di sguardo sulle ferite del mondo, un antidoto modernissimo alla rassegnazione anche di fronte a quel «Calvario d’acqua» che è diventato il Mediterraneo, il mare di casa nostra.

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