Terza Repubblica
Democrazia cambiata

«Cambieremo l’Italia» tuona Danilo Toninelli, capogruppo al Senato dei Cinquestelle. «Stiamo scrivendo la Storia», «Inizia la Terza Repubblica» gli fa eco Luigi Di Maio, il capo e candidato premier del Movimento. Non c’è da dire: i toni sobri non fanno per i grillini. Sarà l’entusiasmo dei neofiti. Sarà l’avventatezza propria della loro giovane età. Un dato è certo: sono sicuri di lasciare un segno indelebile nella storia della nazione. Come s’usa dire in casi del genere, toccherà agli storici stendere «l’ardua sentenza». Per il momento limitiamoci a registrare in cosa e in che misura la nostra democrazia stia cambiano di passo.

Innanzitutto, si può dire che, se tutto funziona secondo i loro intenti, prenderà il via il primo governo di una grande democrazia europea espresso interamente da forze populiste. Il che rappresenterebbe una rottura di continuità non solo nei programmi proposti, già di per sé sufficientemente caratterizzanti, ma anche nella concezione e nella prassi delle istituzioni democratiche. Il populismo riduce la politica alla contrapposizione popolo/élite, comprendendo in quest’ultima indistintamente tutto quanto non sia diretta espressione del cittadino: e cioè classe politica, partiti, burocrazia, banche, finanza, multinazionali, mercati, ecc. Esso guarda perciò con sospetto (la Lega) o espressamente rigetta (CinqueStelle) ogni forma di intermediazione tra popolo e capo-popolo, considerandola distorcente o addirittura lesiva della democrazia. Scarso o nessun rispetto riserva agli istituti, alle autorità, alle procedure, ai trattati, alle prassi di cui si sostanzia una democrazia rappresentativa, liquidandoli come semplici intralci all’esercizio della sovranità popolare.

L’annuncio da parte del M5S ancor prima del voto della propria squadra di governo, la rivendicazione di entrambi i partner della coalizione della premiership senza averne i numeri parlamentari, l’auto-attribuzione del mandato al governo in spregio ad ogni confronto con gli altri partiti, la riduzione del presidente del Consiglio a semplice «esecutore» del contratto stilato da due contraenti, la prefigurata creazione di un «comitato di conciliazione» sovra-ordinato al Consiglio dei ministri, la volontà di vincolare gli eletti ad un mandato imperativo, lo svilimento delle Camere a semplice cassa di registrazione del sopracitato «contratto per il governo del cambiamento», la riformulazione unilaterale dei trattati internazionali, la squalifica degli organi di governo Ue perché espressione dei «non eletti»: tutto ciò non è riducibile ad una semplice scorrettezza o ad un’incolpevole irritualità. È piuttosto la traduzione operativa di una cultura politica che esce dall’orizzonte del parlamentarismo così come è tracciato nella nostra Costituzione, con buona pace peraltro del neo-presidente della Camera Roberto Fico, insediatosi nel nome di una rinnovata «centralità del Parlamento». È il portato di un pensiero che rompe con la tradizione e la stessa storia della democrazia occidentale.

Ancor prima che con il programma di governo, è appunto con questa nuova concezione della democrazia che i vari Di Maio, Toninelli, Bonafede e, per certi versi lo stesso Salvini, possono proporsi a padri fondatori della Terza Repubblica. E sbagliano gli avversari a pensare che basti loro aspettare sulla sponda del fiume perché passi prima o poi il cadavere del neonato governo. I populisti non hanno solo i voti dalla loro parte. Dilagano nell’opinione pubblica anche perché sanno interpretare a loro modo la crisi che ha investito le democrazie occidentali, e in misura ancor più pronunciata quella italiana, rendendo irreversibilmente obsolete le culture politiche dei partiti storici, della Prima come della Seconda Repubblica .

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